Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Io sono un autarchico” (1976) di Nanni Moretti: nascita di un nuovo punto di riferimento culturale e di un nuovo linguaggio per il cinema italiano
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
21/12/10 – Ad approcciarsi a Nanni Moretti e al suo cinema si ha sempre una certa difficoltà. Perché buona parte di tutti questi discorsi Moretti non li ama. Perché molte sono le cose che ritiene inutili, e quel che lo infastidisce di più è l’eccesso di parole fini a se stesse. Perché i riflettori li aborrisce, così come aborrisce ogni forma d’incensamento e santificazione in vita di un autore. Figurarsi, poi, se la celebrazione riguarda lui stesso. In realtà, non c’è nessuna intenzione da parte nostra di farne un “eroe del cinema italiano”. Ma è innegabile, quantomeno, che Moretti abbia fatto divertire e riflettere ormai due, tre generazioni, e che soprattutto i suoi film più vecchi, quelli più poveri, girati con due lire e pochissimi mezzi tecnici, vivano di un vero e proprio culto. Nei discorsi di molti di noi, le battute e i leit-motiv più famosi delle sue opere d’esordio ricorrono spessissimo. Ormai la persona “che fa cose, si muove, conosce gente” identifica immediatamente una categoria umana, meglio di qualsiasi altra definizione.
Negli anni ’70 il cinema di Nanni Moretti nasce con dichiarate intenzioni di rottura. Rottura coi metodi produttivi italiani, coi mezzi espressivi più canonici, con l’invadenza del cinema “fatto coi soldi e con gli attori famosi” (celebre il confronto televisivo a Match tra Moretti e Monicelli, moderato da Alberto Arbasino). Rottura, soprattutto, con un linguaggio, ritenuto frusto, inefficace, zeppo di cliché, che raccontava al pubblico solo ciò che voleva sentirsi dire. E rottura costruttiva, poiché anche Io sono un autarchico, opera prima di vero underground, delineava già una nuova poetica, una vera nuova proposta linguistica. La macchina da presa, nel suo primo film, come anche in Ecce bombo, non si muove quasi mai. Tuttavia, quel cinema vive di scelta d’inquadratura e di montaggio, visivo e sonoro. Elementi compositivi che si muovono per scelte minime ed essenziali, ma di grande resa espressiva. Si veda l’uso spesso dissonante della voice over (esilarante Fabio Traversa che riflette sul Marat/Sade guardando Moretti nella vasca), la critica ai cliché espressivi del cinema italiano del tempo tramite i suoi stessi strumenti, riprodotti con intento dissacrante (tutta la sequenza di Moretti che passeggia col figlio, che scimmiotta i lacrima-movies anni ’70), la sapiente giustapposizione di quelle lunghe riprese a macchina fissa secondo uno schema di “episodio concluso” e al tempo stesso aperto a una solida unitarietà narrativa. E, sopra ogni cosa, linguaggio per immagini. E’ vero, ci sono i monologhi di conclamata dissacrazione, ma c’è anche una sapientissima composizione d’immagine che permette al film di essere comico anche solo tramite strumenti visivi. Uno su tutti, il campo-controcampo ripetuto tra Fabio Traversa e il pubblico dello spettacolo che, un po’ alla volta, se ne va, si sveglia, si spaventa, scappa…
Non va nemmeno frainteso come il “cinema giovane” che, glorificando se stesso, rinnegava le idee dei padri. Mai nessuno è stato tanto cattivo quanto Moretti con la propria generazione. Attentissimo a coglierne tutte le contraddizioni, i cliché, gli “obblighi ideologici”, Moretti è stato il primo a vivere con insofferenza tutte le ostentazioni del suo stesso habitat culturale. Quei giovani che “si muovevano, facevano cose, conoscevano gente”, ma spesso tragicamente lontani da qualsiasi esigenza reale.
La prima dello spettacolo teatrale è decisamente poco amata dal pubblico. Tuttavia un critico teatrale “rassicura” l’autore.