In Memoriam: se ne va Blake Edwards. Commediante corrosivo che mai piacque troppo a Hollywood
17/12/10 – C’è un impalpabile filo rosso che collega Blake Edwards, scomparso oggi, al nostro Mario Monicelli. Culture diverse, tradizioni diverse, cinematografie lontanissime tra loro. Ma in entrambi i casi due forti personalità di “mestiere del cinema”, che non mettono steccati elitari o ideologici, che amano lo spettacolo in quanto tale, che fanno dell’eclettismo professionale la cifra più marcata. Anche Blake Edwards è ricordato per le sue folli commedie, per il recupero dello slapstick, per la pura comicità, talvolta raffinatissima, talvolta pure greve. Eppure, non dimentichiamolo, sempre lui fu l’autore di Colazione da Tiffany (1961), commedia sofisticata che contribuì fortemente alla fondazione del mito elegante di Audrey Hepburn. Sempre lui compose un dolentissimo dramma come I giorni del vino e delle rose (1963), con uno strepitoso Jack Lemmon fuori dal cliché del commediante mattacchione. Sempre lui produsse il (poco riuscito) melodramma-spy story di Il seme del tamarindo (1974). E sempre lui, infine, ebbe l’ardire di portare in terra d’America nientepopodimenoché il remake di un film di Truffaut (I miei problemi con le donne, 1983). Questo, magari, non gli fa molto onore, visto che nel ruolo che fu di Charles Denner troviamo quel bietolone di Burt Reynolds, tanto per dire… Ma un applauso, quantomeno, al coraggio. E un’ulteriore testimonianza, soprattutto, del “fare cinema” come nobile mestiere. Si può girare tutto, l’importante è portare il film a casa. E l’importante, soprattutto, è non vendersi l’anima. Almeno non troppo.
Hollywood non l’ha mai amato molto. Pare per il suo carattere vulcanico, pare perché non gli ha perdonato la sua satira spesso virata contro lo stesso mondo dello spettacolo. Pare, magari, per un paio di flop clamorosi (Operazione Crepes Suzette, 1970, soprattutto, gli affossò la stima degli Studios). Dal canto suo, Blake Edwards fu uno dei pochi a saper dirigere bene quel cavallo imbizzarrito di Peter Sellers, che nei suoi film acquistò popolarità mondiale continuando, tuttavia, ad apparire sempre e tragicamente al di sotto delle sue immense possibilità. L’ispettore Clouseau ce lo porteremo nel quarto millennio e oltre, ma francamente non è tra le cose migliori né di Edwards né di Sellers. C’è, di contro, un trittico inaspettato, a cavallo degli anni ’80, che merita di essere rivisto. 10 (1979), S.O.B. (1981) e Victor/Victoria (1982): quando in molti lo davano per “bollito”, Edwards rinacque agli anni ’80 in forma strepitosa. E lo slapstick, lo scambio di persona, il travestimento, la satira, la commedia degli equivoci si sposarono a un nuovo sentimento maturo, crepuscolare, a tratti brillantemente senile. Tuttavia, il prodigio dell’immortalità spetta senza dubbio a Hollywood Party (1968), opera quasi estenuante nella sua purezza di comico d’azione, che rinuncia alla parola per parlare tramite rumori, situazioni ripetute, e un sorriso pure inquietante sull’attrazione/repulsione per l’alterità più corrosiva. Quando fu capito, Edwards fu più o meno uno dei tanti. Hollywood Party non fu capito, e probabilmente sarà l’unica sua opera destinata al più puro infinito.