“Arturo è un bellissimo personaggio, simboleggia il momento del passaggio tra adolescenza ed età adulta: i primi dolori, la scoperta della sessualità, delle delusioni che fanno crescere. Inoltre il film, come il libro, ha un finale aperto” afferma Sibilla Damiani ai nostri microfoni, dopo la presentazione ad Alice nella Città alla Festa del cinema di Roma de L’isola di Arturo, realizzato dal padre nel 1962, restaurato da Cinecittà in 4K.
Come ebbe modo di dichiarare all’uscita della pellicola nelle sale, Damiani amò perdutamente il romanzo di Elsa Morante e con grande senso di rispetto si avvicinò alle fragilità del protagonista Arturo che cresce praticamente da solo sull’isola di Procida, in una grande casa, la Casa dei guaglioni, leggendo molto e aspettando ogni giorno il ritorno del padre che sporadicamente faceva capolino sull’isola: “Mi ricordo pure che arrivato al largo, mi pigliava una paura, un’amarezza di solitudine, e rinunciavo; tanto era inutile la speranza di trovare mio padre, perché non sapevo mai dov’era. E poi lasciando l’isola io lo potevo perdere per sempre, perché solo là c’era una certezza: prima o poi lui sempre ritornava” scriveva Elsa Morante. La sua vita sembra non vivere vere svolte, fino a quando il padre, al porto, scende dalla barca con accanto Nunziatina, la sua nuova sposa, quasi coetanea di Arturo. L’incontro tra i due imprimerà una svolta totalmente inaspettata alla vita del giovane. “Un libro, memoria poetica di un’età, l’adolescenza che è una vita, prima della vita” affermò Damiani che quell’adolescenza piena di così tante domande, dubbi, pulsioni alle quali difficilmente si sa attribuire un nome e un’origine la mette in scena al suo meglio, regalando allo spettatore una totale immersione nelle gioie e nei dolori vissuti dal protagonista, interpretato da Vanni De Maigret.
La sceneggiatura venne scritta da Damiani con Ugo Liberatore, Enrico Ribulsi e la collaborazione di Cesare Zavattini mentre ad Elsa Morante venne chiesto di approvarla: “La Morante non intervenne sulla sceneggiatura, la lesse, l’approvò, ricordo che non era molto d’accordo sulla protagonista (Key Meersman) perché aveva qualcosa di anglosassone (era americana) e l’avrebbe voluta più meridionale e meno bella e, probabilmente, aveva ragione. Mentre giravamo, venne qualche volta a vedere le riprese, ma sempre con grandissima discrezione” testimoniò il regista. Le storie sui due e i loro dissapori hanno arricchito le cronache dell’epoca ma la figlia chiosa ricordando soprattutto il grande rispetto reciproco e come entrambi si sono ritrovati nell’amore per il periodo dell’adolescenza. Arturo per Elsa Morante era: “Un ragazzo che passa attraverso tutte le prove dell’esistenza umana per acquistare il diritto di essere uomo, e quindi eroe”. Riflettendo sui suoi primi libri affermò: “Scrivo in prima persona per un motivo addirittura scientifico. Ora noi adulti non crediamo più all’immutabile essenza del mondo esterno; e sappiamo che il tempo non è una realtà oggettiva, ma soltanto una dimensione. D’altra parte la funzione dell’arte è inventare la realtà, cioè interpretare e trasfigurare le cieche apparenze. E io mi metto nelle condizioni di un adolescente, di una ragazza, che credono ancora alle apparenze del mondo”.
Tra le maggiori critiche al film, proprio al livello di sceneggiatura, ci sono quelle di non aver inserito la passione e l’amore che Arturo ha per i libri, per la conoscenza, che guida e accompagna il suo percorso di crescita e lo salva da tanta solitudine e disperazione. Inoltre molti non si sono spiegati l’aver eliminato il personaggio della madre del giovane che muore prematuramente e della quale, nel libro, il personaggio parla molto attribuendo alla donna l’origine di molte sue decisioni.
Dal 1962 Elsa Morante, con I diavoli, si avvicinò alla scrittura per il cinema, alla sua sintassi ma quel progetto, come Miss Italia con Lattuada su una ragazza che partecipa al famoso concorso di bellezza, conoscendone subito tutta la cattiveria, come Verranno a te sull’aure…con Zeffirelli, non videro mai la luce. La scrittrice collaborò a lungo con Pier Paolo Pasolini per le musiche dei suoi primi film, la nipote Laura Morante (figlia dell’amato fratello) – oggi attrice molto affermata – avrebbe dovuto partecipare al Decamerone ma la zia si oppose. Il suo rapporto con il cinema si concluse perché, così raccontano le cronache, aveva un carattere difficile ed era poco incline ai compromessi soprattutto con i produttori.
Damiani, nato a Pasiano di Pordenone nel 1922, dopo aver studiato all’Accademia di Brera, prima de L’Isola di Arturo aveva già diretto due documentari: La banda d’Affari (1947) e Le giostre (1954), il suo esordio alla regia di film di finzione: Il rossetto (1960), su una ragazzina che si innamora di un assassino e Il sicario (1961), ispirato al caso dell’imprenditore Fenaroli che, sull’orlo del fallimento, commissiona l’omicidio di un suo creditore per salvare l’azienda. Con questa pellicola Damiani avvia il filone di un certo cinema civile pronto a denunciare soprattutto la borghesia corrotta. L’apice di questo suo impegno sarà Il giorno della civetta (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, seguito poi da Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), L’istruttoria è chiusa: dimentichi! (1972), Perché si uccide un magistrato (1974), Io ho paura (1977), La piovra (1984).
A cent’anni dalla morte del regista Cinecittà, Comune di Pasiano di Pordenone, Cinemazero e Ortotreatro hanno ideato il progetto “100 Damiani , 1922-2022 viaggio nei cento anni di Damiano Damiani”, realizzato da Clipper Media e, oltre al restauro del film, sono in programma diverse iniziative per celebrare il regista.
giovanna barreca