Andrea Arnold è una regista inglese con la rara capacità di raccontare per immagini mai banali storie di donne che affrontano la vita spesso in una totale solitudine interiore, lottando con figure di madri, amici, uomini incapaci di ascoltarle o guardarle davvero. Donne che hanno un’incredibile e spesso frustrata voglia di vita e d’amore. Ne è un esempio Wasp, disponibile su Mubi, cortometraggio premio Oscar nel 2003, girato a Dartford – città natale della regista -, dove una giovanissima mamma che vive in un quartiere operaio, rivede un vecchio amico che non sa delle sue figlie e la trova ancora molto attraente e la donna farà di tutto per potersi sentire ancora desiderata.
La protagonista è come l’insetto sul vetro della cucina (la regista inserisce spesso questo genere di metafore) che cerca a tutti i costi di tornare a respirare l’aria della natura. In Fish Tank, vincitore del premio della giuria a Cannes nel 2009, la giovane protagonista Mia ama ballare e quando il compagno della madre la nota e la trova brava, la giovane trova finalmente uno sguardo complice, vicino, amico come non è mai stato quello della madre o della sorellina più piccola anche se questo non basterà a liberarsi (qui la metafora è legata ad un cavallo bianco schiavo in catene). Privilegiando quasi sempre il 4:3 Arnold riesce a coinvolgere maggiormente lo spettatore nelle vicende narrate e soprattutto a farci concentrare su occhi e volti delle sue protagoniste.
Anche se in Cow, disponibile dall’11 febbraio su Mubi, la protagonista è una mucca e non un essere umano il processo di avvicinamento e di empatizzazione è il medesimo presente in quasi tutti i suoi corti e lungometraggi. La macchina da presa è così vicina agli occhi nerissimi di Luma – la mucca da latte protagonista – e ci viene spesso raccontato, attraverso l’uso della semi soggettiva, ciò che l’animale vede che per tutta la durata del film si sta con lei in una stalla sporca o in un prato verde e ci sembra di poterne cogliere i sentimenti: dalla gioia, alla frustrazione, al dolore di una routine che, per chi è sensibile e lotta perché non esistano più gli allevamenti di animali, risulta davvero agghiacciante. Nella sinossi si specifica che si tratta di un “documentario sulla realtà di una mucca da latte; si riconosce il suo grande servizio nei nostri confronti”. Purtroppo si tratta proprio di un servizio, come se questi animali fossero degli oggetti e non degli esseri viventi senzienti, capaci di provare emozioni e sentimenti.
Il film inizia con Luma che partorisce una bella vitella bianca come lei, con poche chiazze nere. A Luma è consentito pulirla, perché abbia un primo caldo contatto materno ma, nel giro di pochi giorni, la piccola viene allontanata per sempre. Non le permettono mai di attaccarsi alle mammelle della mamma perché non si affezioni. I versi di entrambi a distanza sembrano richiami dolorosi di un amore condannato a finire per mano dell’uomo che vuole che il tanto latte di Luma venga regolarmente succhiato da uno strumento meccanico nero, freddo e non, come sarebbe naturale, dalla sua piccola. Luma sembra non avere bisogno neppure delle indicazioni per raggiungere questo posto perché il suo corpo, sempre più pesante, lo conosce perfettamente. La sua semi soggettiva ci mostra le solite pareti blu della gabbia stretta che la contiene durante l’operazione perché non entri in contatto con le altre sorelle, accumunate dallo stesso destino.
Una volta partorito una vitella, Luma deve tornare fertile prima del tempo e quindi una puntura le incentiva le mestruazioni così che, entro il Natale dell’anno successivo al primo parto, possa dare alla luce un nuovo vitello. Macchine per il latte, macchine per sollevarle quando vanno puliti gli zoccoli, macchine che le tatuano, macchine che bruciano le possibili corna pochi mesi dopo la nascita. Un contatto meccanico è l’unica cosa che conoscono nella loro quotidianità Luma e le sue compagne. Sono banditi i contatti, le relazioni che sono alla base di ogni normale convivenza soprattutto tra i mammiferi. Durante tutta la visione, lo spettatore ascolterà la musica pop della radio presente nella stalla che non sembra interessare o essere percepita dall’animale ma sicuramente aiuta lo spettatore a smorzare un po’ la tensione davanti a immagini così reali e così forti perché quotidiane, ripetute come si ripetono i giri dell’ingranaggio di un oggetto meccanico.
Luma sembra cercare la bellezza nel prato dove, nei mesi estivi – tormentata dalle mosche – può passare qualche ora e cercare un po’ di luce (speranza) quando il suo sguardo sembra osservare gli aerei che passano sopra la fattoria o il treno in lontananza. Un essere vivente, considerato oggetto che conosce dolore e sofferenza e che quando ha messo al mondo sei vitelli tutti sani, può anche essere buttato. Arnold non può lasciare, come le capita in quasi tutti i suoi film, un finale aperto perché sarebbe stato poco onesto e contrario al realismo che ricerca in ogni sua opera.
Per chi, come chi vi scrive, ha scelto di alimentarsi senza mangiare la tanta sofferenza animale, si tratta di un documentario necessario perché viviamo in un mondo dove, grazie alla pubblicità ingannevole, i bambini pensano che le mucche facciano yogout alla frutta, il cioccolato provenga da mucche che vivono in pascoli verdi meravigliosi tra le montagne ma questa non è la realtà. Di Luma, con il suo numero 29 tatuato sulla pelle, ne esistono centinaia di migliaia perché l’uomo lo vuole, per un’industria alimentare incapace di progredire.
Quando il cinema racconta lo sfruttamento degli animali, solitamente per essere maggiormente impattante, usa immagini di violenze fisiche sulle bestie, di gesti di cattiveria gratuita. Il pregio di Cow è anche quello di non percorrere questa via. Per la prima volta la regista mette in scena il punto di vista della mucca che non vede neppure in volto gli uomini, sentendone solo i richiami e i complimenti come “Brava ragazza” quando si sposta senza dover essere sollecitata.
Quando Luma mette al mondo l’ultima vitella il suo allevatore, rispondendo al collega, gli dice che è meno docile del solito e non vuole allontanarsi dalla piccola, perché “con l’età diventano più protettive”. Anche chi le alleva sa che sono esseri viventi capaci di provare sentimenti ed emozioni e da oggi lo sapranno tutti gli spettatori che avranno il privilegio di vivere nella vita di una mucca di nome Luma per poco più di un’ora.
Cow non offre risposte ma ha il pregio di far entrare lo spettatore in questi occhi neri e costringerlo a porsi delle domande. Potrete giudicare crudele o inutile l’agire dell’uomo nei confronti dell’animale o potrete pensare che sta nell’ordine delle cose perché la regista non ha fatto un film a tema, con una tesi ma crede fortemente che la risposta ognuno debba e possa trovarla dentro la propria coscienza. Arnold si è limitata a offrire un punto di vista inedito.
giovanna barreca