Francesco Montagner è tra i giovani documentaristi italiani (classe 1989)che con pazienza e curiosità riprende i suoi attori o meglio le persone prima dei personaggi, lasciando che le cose accadano, lasciando che le cose accadano nel loro tempo. Ha studiato regia alla Famu di Praga e oggi, in quella stessa scuola, insegna regia del documentario. Dopo il successo di Animata resistenza, la sua opera prima, alla 16edizione della Festa del cinema di Roma, ha presentato Brotherhood. Il film ha avuto la sua prima mondiale al Festival di Locarno dove ha vinto il Pardo d’oro nella sezione Cineasti del presente.
Il documentario racconta due anni decisivi (anche se le riprese sono durate quattro anni) nella vita di tre fratelli bosniaci di fede musulmana, tre adolescenti che si ritrovano a doversi occupare uno dell’altro (lo faranno davvero?) perché il padre viene condannato per terrorismo e devo scontare 23 mesi di detenzione, lontano da loro, lontano dalla fattoria dove alleva pecore. I giovani devono occuparsi del bestiame e della casa con compiti precisi assegnati dal padre ma soprattutto dei loro sogni, delle aspettative nei confronti del futuro che, quando il padre è via (l’uomo è un fondamentalista e capo famiglia severo e autoritario che non ha alcun dialogo con i ragazzi) potrebbe avere connotati diversi.
L’uomo non li ha mai ascoltati, non li conosce. La macchina da presa invece fa l’esatto opposto. Li segue, li osserva nell’impercettibile movimento di un labbro, di un occhio, nel gioco insieme, nello sguardo basso a scuola quando il più piccolo non sa rispondere a una domanda dell’insegnante, nel primo incontro con una ragazza per il più grande, nelle ore con le pecore del fratello che sta a metà e che meno degli altri sa rapportarsi con il paradiso-prigione che è la loro casa. Montagner filma gli occhi che provano a scrutare l’orizzonte in primi piani spesso molto struggenti, sia quando sono persi nella natura, sia quando provano a vedere il resto del mondo, purtroppo solo attraverso i telefonini. Li guarda molto spesso con tenerezza, illuminandoli con la luce di una primavera che loro vorrebbero fosse già estate.
Le loro lotte nella natura, i loro scambi di opinioni sul futuro sono per Jabir, Usama e Uzeir libertà pura che assaporano per la prima volta e soprattutto condividono in maniera diversa mentre crescono, mentre ognuno di loro – durante questo processo – esplora, si allontana, cerca di conoscersi, di ascoltarsi e si forma come individuo, come essere indipendente tra paura e naturale euforismo.
L’indagine condotta in questo territorio si fa ancora più interessante perché, come sottolinea il gioco di guerra dei giovani nel bosco, il passato di violenza, di prevaricazione, di massacri che la Bosnia ha vissuto alla fine del secolo scorso non è un capitolo chiuso. I protagonisti non hanno vissuto la guerra ma il conflitto fa ancora parte del paese, fa ancora parte di una seconda generazione che deve farci; è una sorta di “trauma di seconda generazione” come afferma il regista durante la nostra intervista che va ancora elaborato.
giovanna barreca