Come riporta il Bollettino Grotte settembre/ottobre del 1961: “Partiti da una affollata stazione del nord, arrivavamo all’alba su una deserta costa calabrese. Mai, fino ad allora, la speleologia italiana aveva spinto una campagna esplorativa così a sud”. Con questa nota ebbe inizio l’avventura di una squadra di giovani speleologi che, nell’Italia in pieno boom economico (soprattutto a Nord), esplorarono l’abisso del Bifurto, in Calabria, toccandone il fondo di -687 metri, all’epoca terza grotta più profonda del mondo. Una volta scoperta questa storia ed esplorato a fondo il territorio, conoscendo Antonio La Rocco e Giulio Gècchele, speleologi di quell’avventura, lo sceneggiatore e regista Michelangelo Frammartino, che già conosceva la superficie del Pollino – grazie a Le quattro volte – decide di scrivere con Giovanna Giuliani, il suo nuovo film: Il buco.
La forza della messa in scena, l’ottimo lavoro di immersione e la speciale dimensione di narrazione e trasfigurazione hanno portato i selezionatori della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia a inserirlo nella competizione ufficiale e la giuria, guidata dal regista Bong Joon-ho, a premiare il film con il Gran premio della Giuria.
L’essenza cinematografica, l’immersione in un fuori campo che porta lo spettatore in una dimensione sotterranea vasta e inesplorata, dove Frammartino, con il suo cinema – che volutamente nasce dal territorio – gioca anche su forti contrasti: “Il confronto nasce con la dimensione dell’oltre, fra conosciuto e sconosciuto, fra mondo e ciò che non è ancora mondo e poi non lo sarà mai” precisa l’autore per spiegare com’è nato e si è sviluppato il lavoro che vede nel film opporsi luce e nero assoluto, Nord (immagini della verticalità del grattacielo Pirelli a Milano) e Sud (la verticalità del Bifurto), boom economico e silenzio, alto e basso, immersione nelle immagini e immersione nella grotta.
Il film sarà in sala dal 23 settembre e vi consigliamo vivamente una visione cinematografica in una sala con un ottimo impianto audio perché l’aspetto immersivo del quale parliamo nell’articolo e nell’intervista è dato molto dal lavoro straordinario sul suono del film di Simone Paolo Olivero, oltre a quello sulla fotografica di Renato Berta.
giovanna barreca