Un mecenate e un palazzo dato in dono ad artisti. Sembra una storia del passato, quando la cultura e l’arte avevano un’influenza diversa nel mondo quella che viene racconta da Federica Di Giacomo con Il palazzo, in anteprima mondiale alle Giornate degli autori alla 78esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Al centro di Roma, con vista sulla Cupola di San Pietro tale struttura presente oggi, nel tempo viene trasformata in un set cinematografico dove un gruppo di giovani inquilini (studenti) creano, sperimentano, giocano con l’amico Mauro che è il catalizzatore di tutte le energie del gruppo e colui che crede più fortemente di altri nel progetto, tanto da diventarne il regista. Nel gesto del creare era racchiusa tutto il suo agire, fino a decidere di rimanere nel palazzo, nonostante tutti gli altri lo abbandonino piano piano per seguire altre strade.
La regista inizia a pensare al film, come racconta ai nostri microfoni, con una struttura che muta quando Mauro muore. In quel momento nasce l’idea di legare alle centinaia di migliaia di ore di girato dell’uomo, anche nuovo immagini che riprendono quegli stessi amici “che con Mauro si erano già autorappresentati. Io ho colto (vent’anni dopo) il momento emotivo di tutti loro, in quel tipo di spazio, facendogli mettere in scena se stessa confrontandosi liberamente senza copione, non come facevano con Mauro dove recitavano un copione”. Non a caso il film inizia sulla terrazza del palazzo la sera che tutti gli amici decidono di rendere omaggio, di salutare tutti insieme l’amico scomparso.
Per la regista, ricordiamo vincitrice nel 2016 del Leone nella sezione Orizzonti con il documentario Liberami, il film è stata soprattutto una sfida sul linguaggio molto interessante. Un lungometraggio che è anche una riflessione inesorabile sul passare del tempo che non potrà lasciare indifferenti e che spingerà lo spettatore a porsi molte domande.
giovanna barreca