Qualsiasi studente della scuola dell’obbligo europea, non solo americana, studia in geografia gli Stati Uniti, descritti come una grande democrazia, come il paese che difende i diritti di tutti, nessun escluso. Su questo si è basata anche l’educazione di Curtis McCarty, figlio di un militare sballottato per tutta la sua infanzia da una base militare all’altra. Nell’adolescenza l’uso di droghe e poi una condanna brutale, una condanna a morte per lo stupro e l’omicidio dell’amica della sua ragazza nel 1985. Dopo 22 anni nel braccio della morte, 19 dei quali in regime di isolamento, viene scarcerato perché innocente. Non aveva commesso il crimine. Senza nessun risarcimento viene rimesso in libertà.
Il documentario A declaration of love di Marco Speroni, presentato in anteprima mondiale al Biografilm festival (a Bologna dal 4 al 14 giugno e contemporaneamente on line su mymovies.it), con una ripresa emotiva sul primissimo piano dell’uomo, ne ripercorre la traumatica esperienza per dare voce a un ragazzo nel corpo di un uomo ormai adulto, con i capelli bianchi che non si capacita del tradimento subito dal suo paese che lo ha sepolto vivo.
Dalla speranza iniziale perché non poteva immaginare accadesse proprio a lui una cosa del genere, il giovane passò diverse fasi: la depressione, la crisi nervosa, la rabbia, il desiderio di vendetta. Metaforicamente il regista ci porta sott’acqua per raccontare Curtis che affoga e nessuno, per tutti gli anni a seguire, lo aiuta a tornare a galla né in carcere, né fuori, una volta ritenuto innocente. Curtis è il simbolo di un sistema giudiziario ormai fallito che deve essere riformato, come una grande democrazia dovrebbe riconoscere e tentare di fare.
Ma la qualità del film non è nella denuncia del crimine commesso contro un giovane essere umano ma nella capacità di Speroni di entrare in una relazione emotiva con il personaggio e così di permettere tale incontro anche a noi spettatori. L’abisso marino profondo, prima citato, è tutto nel volto di Curtis e, dalla terra che viene smossa nel fondale, emergono le lacrime accumulate e che sgorgano naturali davanti alla macchina da presa.
La periferia di Oklahoma City diventa paesaggio protagonista perché è il firmamento interiore e profondamente perso nel cuore di Curtis che ne coglie tutta la geografia anche con le sue fotografie agli ultimi che la abitano: i drogati, gli homeless che gli danno fiducia e gli permettono di scattare dei ritratti veri e per questo profondamente tragici e commoventi.
Nella macchina car di Speroni che riprende le abitazioni, i pozzi, le strade sta l’orizzonte dietro al quale è la vita di Curtis che oggi non fugge ma forse, continua a cercare e, come afferma il regista: “a vivere la sua vita”.
giovanna barreca