Tra i grandi nomi del cinema di questa 77esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia c’è Pedro Almodovar che, dopo il grande successo ottenuto con Dolor y gloria, presenta Fuori concorso il cortometraggio The human voice con protagonista Tilda Swinton, alla quale è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera.
La prima inquadratura del film mostra l’attrice di spalle con un sontuoso abito rosso e subito dopo l’abito è nero e il volto della donna triste e angosciato rivolto verso il basso. Rosso e nero, amore e odio, speranza e disillusione. Sui contrasti e sui sentimenti sempre in bilico è giocato tutto il cortometraggio perché la donna prima sembra aspettare speranzosa il marito e poi, piano piano, questo sentimento lascia spazio alla rabbia e alla vendetta, soprattutto dopo aver sentito l’uomo al telefono e capito che il loro addio avverrà solo attraverso quel mezzo. Anche il cane che abita la casa sontuosa non capisce il perché di quelle valigie in casa e piange accanto ad esse. Anche l’animale non capisce di essere stato abbandonato. Lentamente dalle pareti della casa usciamo per vedere il teatro di posa dov’è stata allestita, ne vediamo la struttura. Alla stessa maniera la donna è come se si spogliasse della sua corazza e ci apparisse, soprattutto durante la chiamata, in tutta la sua fragilità e in tutto il suo dolore. Almodovar arriva all’essenza dei sentimenti della protagonista e non ha alcun timore di mostrarli sul volto in primo piano della protagonista. Il regista spagnolo chiede al suo personaggio di mettersi totalmente a nudo nel teatro di posa, nel teatro dove nel 1930 aveva preso forma l’atto unico di un’inconsolabile telefonata d’addio tra amanti scritta da Jean Cocteau che lo ha ispirato. Ma a differenza di quell’atto qui c’è un elemento in più molto forte: la vendetta.
Concorre sicuramente per la Coppa Volpi Jasna Đuričić, protagonista di Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanic, un film drammatico basato su fatti reali. L’opera ci riporta alla terribile estate del 1995 in Bosnia quando le Nazioni Unite non riuscirono a impedire il massacro dei civili della città di Srebrenica. I serbi occuparono la città, la maggior parte degli uomini, donne e bambini cercò protezione dentro e fuori la base Onu (alcuni andranno nei boschi vicini) pensando di essere in salvo e invece così non fu. Jasna Đuričić intepreta Aida, una cittadina di Srebrenica che non era in città durante i bombardamenti perchè da mesi viveva all’interno della base come interprete. All’arrivo di tutti i suoi concittadini cercherà di proteggere il marito e i due figli dalla furia dell’odio che entrerà anche in quel luogo. Guarda in faccia i militari serbi e quelli delle Nazioni Unite che hanno concretamente in mano le sorti della sua famiglia e cerca di guidarli verso ragionamenti logici e verso un’umanità che però in quei giorni mancò a tutti. Pur conoscendo come andarono le cose, per tutto il film lo spettatore vive il dramma della donna, corre per i corridoi della base insieme a lei, cerca di proteggere quel gruppo di persone così spaventate. Il filo spinato mostrato con diversi dettagli, i bus affollati, i cani, i capannoni con centinaia di persone ammassate e terrorizzate, le fosse comuni sono per tutto il film un richiamo diretto alla Shoa, all’altro genocidio consumato sempre in Europa solo cinquant’anni prima.
Tutto lo spessore drammatico del film si evidenzia nell’evoluzione della protagonista. Con poche scene e un richiamo legato a un paio di ambienti, la regista ci riporta all’oggi e a cosa significhi vivere con il peso di ciò che in quei giorni accadde. E come per La lunga notte del ’43 di Vancini non ci si rende conto di condividere una limonata al bar (per Vancini) e qui il pianerottolo di casa con i mostri che a quel genocidio parteciparono. La regista nata a Sarajevo nel 1974 ricorda benissimo quella guerra che ha insanguinato il suo paese e si ritiene una sopravvissuta.
Sempre in concorso Amants (Lovers) di Nicole Garcia con protagonisti una coppia di giovani molto innamorata: Simon vivacchia vendendo un po’ di cocaina a piccoli consumatori. Lisa segue un corso per diventare cameriera di sala. Una partita di droga tagliata male porterà alla morte di un cliente/amico e da quell’incidente la loro vita prenderà pieghe inaspettate. Il film è diviso in tre atti, come saranno – col proseguire della storia – tre i personaggio principali e tre le location perchè da Parigi la storia vivrà una parentesi nell’Oceano indiano, per poi tornare in Europa. Nell’intensità delle parole dei due amanti trovano riscontro espressioni di due volti prima innamorati e poi disperati, con un bisogno fisico e morale di appartenersi anche quando il peso di ciò che è accaduto li divide e gli impedisce un futuro insieme. Nel lavoro su questi sguardi ha sicuramente avuto un peso il passato da attrice della regista francese, protagonista anche in Mon oncle d’Amerique di Alain Resnais e che con Amants vince la prova della sua seconda regia cinematografica dopo Un week-end sur deux del 1990.
E infine vi proponiamo l’intervista ad Andrea Segre, regista di Molecole, documentario presentato Fuori concorso. Il regista nato a Dolo, in provincia di Venezia, compie un doppio viaggio. Il primo è nella Venezia deserta del lockdown che ha, con i suoi silenzi, scavato in ricordi legati al padre che in quella città, a differenza del regista cresciuto a Padova, è vissuto per tutta l’infanzia e l’adolescenza, fino al matrimonio. E legato al ricordo del padre nasce il secondo viaggio. Un film non scritto, girato perchè Segre sapeva che non poteva lasciare Venezia ma doveva restare e filmare un momento storico unico. Poi sedutosi in sala montaggio ha capito che quel vuoto e quel silenzio della Laguna potevano dialogare con una parte più inconscia che conscia dell’autore e quindi con il padre, docente universitario che studiava proprio le molecole. “Non è un film su Venezia o su mio padre ma un film che attraverso Venezia e mio padre parla della fragilità dell’esistenza e delle relazioni che spesso sfuggono”. Un film che proprio nel silenzio che ci lascia respirare trova il suo senso e ci lascia vivere tutte le contraddizioni del nostro tempo, non solo quelle di una città bellissima che tutti meritano di poter vedere e che allo stesso tempo non può continuare ad essere così tanto sfruttata rischiando di sparire. La musica di Teho Teardo offre una terza e fondamentale linea narrativa nella quale, in molte scene, è meraviglioso perdersi.
giovanna barreca