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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Sotto il sole di Roma” (1947) di Renato Castellani: il neorealismo “professionale”, ovvero il “neorealismo rosa”, ovvero il neorealismo che non c’è
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
30/11/10 – Chi non è stato neorealista almeno una volta negli anni ’40 italiani, scagli la prima pietra. Chi è stato assommato in una generica periodizzazione poco veritiera, in ogni luogo o epoca, altrettanto. Renato Castellani non ha mai avuto ambizioni teoriche (come, pur con attribuzioni superiori ai veri intenti degli interessati, sono stati magari Rossellini, De Sica o soprattutto Zavattini). Lo dimostra il suo progressivo disperdersi, negli anni successivi, in una produzione eclettica e sempre meno ispirata, nel solco di un’onesta professionalità applicata a epoche e contesti diversi. Nel secondo dopoguerra, i suoi film possono essere più rapidamente raggruppati sotto un’evidente tendenza comune, ma la diacronia restituisce sempre luci più efficaci su periodizzazioni affrettate. A distanza di 70 anni, del neorealismo, forse, resta solo un “sentimento cinematografico” comune a un’epoca, mentre sul piano estetico tutto si muove in modo centrifugo verso inevitabili individualità creative.
Sotto il sole di Roma, film piuttosto (e ingiustamente) dimenticato, è rintracciabile in ogni lista di film “neorealisti” che si rispetti, nei casi migliori identificato come uno dei primi passi verso la deriva neorealistica più diffusa negli anni ’50, il cosiddetto “neorealismo rosa”, in cui la rapida cristallizzazione dei cliché narrativi pertinenti al principale cinema italiano anni ’40 si coniuga a uno sguardo garbato, lievemente umoristico e venato di timidi rossori sentimentali. In effetti, del neorealismo tout court Castellani assume i tratti più marcati, ma solo sul piano diegetico: Roma, sopra ogni cosa, attori non professionisti, personaggi popolari, riprese quasi totalmente in esterni, storie di povera gente e di guerra, di miserie sofferte nel dopoguerra e di individui vittime di un contesto sociale. Del nascente neorealismo rosa, per contro, Castellani adotta una storia di sentimenti giovanili, mettendola al centro del racconto, e una solida struttura moralistica di “perdizione” e “riscatto”.
Tuttavia, il metodo è già notevolmente distante rispetto ai canoni più noti del neorealismo. La struttura del racconto è scopertamente romanzesca, anche se scandita, in chiavi anche piuttosto originali, su un tracciato narrativo episodico. Episodi che però si compongono, al tempo stesso, in una fluida unità narrativa. La sceneggiatura è evidentemente prioritaria, con giovani attori non professionisti che fanno sforzi sovrumani (spesso fallimentari e un po’ ridicoli) per tenere il passo di una narrazione robustamente preordinata. Assecondando una tale struttura, il linguaggio visivo si mostra composito e consapevolmente ritmato, tra montaggio serrato, macchina da presa in continuo movimento e ricercata costruzione dell’inquadratura. Con ardite sperimentazioni (si veda l’uso della “soggettiva acquosa” per la sequenza dell’incontro di boxe), che se magari caratterizzano l’opera per un eclettismo pure eccessivo, al contempo mostrano, semmai, un autore proteso al superamento di un linguaggio codificato. Del neorealismo, insomma, resta ben poco nella sostanza filmica. Anzi, nelle deformazioni fisiognomiche di alcuni personaggi secondari (Alberto Sordi e la sua compagna-megera), esaltate da impietosi primi piani, è più probabile rintracciare un certo gusto prefelliniano.
Si litiga in tram a Roma, primi cliché di una commedia sempre più “romanocentrica”: