Che barba, che noia. La prima, stile hipster ante litteram, la mette Vincent Lindon, la seconda la offre il Jacques Doillon alla regia. Due nomi di grande calibro del cinema francese, e il terzo è addirittura un gigante della grandeur artistico-culturale transalpina: Auguste Rodin, il celeberrimo scultore de Il bacio e Il pensatore.
In Concorso a Cannes, l’eponimo Rodin lo ritrova quarantenne nella Parigi del 1880 alle prese con la sua prima commissione statale, La porte de l’enfer. Ma è arte-vita, quella di Auguste, ed è scissa tra la compagna di sempre, la contadinotta Rose (Severine Caneele), e la sua più sveglia allieva, poi assistente e amante, la giovane Camille Claudel (Hizia Higelin). Seguiamo il triangolo fino alla sua rottura, contrappuntata dalle vicissitudini della statua di Balzac…
Il talento, pregresso, di Doillon non si discute – se potete, recuperate quel gioiello misconosciuto di Les doigts dans la tete del 1974 – e le doti interpretative di Lindon nemmeno, ma qui con una preponderanza del primo sono ai minimi termini: “cinema de nonnò”, vecchio, polveroso, pesante come il marmo, sordo come il gesso e, s’intende, la scultura non è una buona scusa.
E pure Lindon non fa nulla – è vero, era missione impossibile – per dare un guizzo immaginifico, uno spiraglio introspettivo, una tensione prospettica.
Niente, quello che vedi è quello che avrai, e fatta eccezione per qualche nudo di qualche modella è davvero poco. Inopinatamente in lizza, si fa per dire, per la Palma.
Federico Pontiggia per cinematografo.it