Zhenya e Boris stanno per separarsi. Entrambi hanno già pianificato da tempo la propria exit strategy: lei con un facoltoso e rassicurante 47enne, già divorziato, lui con una donna più giovane, che tra qualche mese lo renderà padre per la seconda volta. Il primo figlio, Alyosha, avuto dodici anni prima con Zhenya, non si sa quale destino avrà. Entrambi i genitori, infatti, sembrano fare a gara per non tenerselo. Messo in un angolo, dimenticato, Alyosha svanirà nel nulla.
Andrej Zvjagintsev torna in concorso a Cannes tre anni dopo Leviathan (che al Festival vinse il premio per la sceneggiatura e, mesi dopo, ottenne il Golden Globe per il miglior film straniero): stavolta, come da titolo, lo fa con un film senza amore (Loveless, appunto), dove la solita messa in scena maniacale e scientifica e i movimenti di macchina calcolati al millimetro coincidono con uno schematismo del racconto figlio di una presa di posizione, oseremmo dire ideologica e moralista, molto forte.
Il film, d’altronde, è chiaro sin dall’inizio, quando l’inquadratura fissa sull’uscita dalla scuola abbraccia la moltitudine caotica degli studenti nel piazzale per poi affidare ad un breve carrello laterale la “scelta” del ragazzino che – scopriremo poi – con la sua sparizione certificherà il fallimento di due esseri umani.
Non esiste redenzione, e neanche il cambiamento sembra essere contemplato dal regista russo: come su un tapis-roulant impostato per non spegnersi mai, neanche l’illusione di un nuovo inizio potrà rimescolare le carte.
È un loop, una corsa senza senso, senza amore, che narcotizza e impedisce di far crescere nel modo appropriato le nuove generazioni.
Dallo sviluppo basico e lineare, aperto e chiuso dalla stessa immagine su un fiumiciattolo innevato con contrappunto al pianoforte in un crescendo inquietante, Loveless è un film che vuole ricordarci quanto, ai giorni nostri, interessarsi veramente del bene e dei bisogni di qualcuno sembra essere diventato impossibile.
Da questo punto di vista, Zvjagintsev non perde occasione per far ruotare intorno alla vicenda principale situazioni e figuranti preposti allo scopo.
Tra un inutile selfie e discorsi vuoti (contro i quali il regista prova a rispondere attraverso un ragionamento sul senso dell’immagine ben marcato e definito), nel sottofondo di confronti ormai regolati solamente da odio e frustrazione repressa, la solitudine di un 12enne – per essere degna di nota – deve passare attraverso un’inspiegabile sparizione.
È un gesto di ribellione? Per attirare l’attenzione? Ha avuto un incidente? È stato rapito? Alla fine, chi sembra davvero preoccuparsi delle sorti di questo ragazzino sono il coordinatore e la sua squadra di volontari chiamati a ogni possibile sforzo per ritrovarlo.
Ed è naturalmente solo verso di loro che lo sguardo di Zvjagintsev sembra posarsi in modo benevolo. L’ultima speranza rimasta per ritrovare il senso delle cose (e di un paese) perdute(o).
Valerio Sammarco per cinematografo.it