Un romanzo di Maupassant e una storia di disperazione e destino infame da far tremare i polsi al pubblico e ai produttori. Eppure Stéphane Brizé fa un grande passo avanti rispetto al debole (seppur urgente) La legge del mercato e dispiega tutte le sue potenzialità di regista e narratore con un melodramma doloroso e aspro al limite della spigolosità.
Il film racconta – come dice il titolo – la vita di Jeanne che “comincia” appena uscita del collegio, di poco maggiorenne. L’amore con il visconte Julien la condurrà a scoprire il dolore celato dalle apparenti gioie, ma anche le briciole di felicità nascoste dai ribaltamenti del destino.
Scritto da Brizé mantenendo la struttura episodica del romanzo (all’epoca pubblicato a puntate come un feuilleton), Une vie è un dramma d’amore in senso assoluto, in cui i sentimenti e i rapporti personali sono raccontati con taglio duro, tutt’altro che conforme alle regole ingioiellate del film in costume.
A partire innanzitutto dallo schermo stretto, in 4:3, la macchina da presa sui personaggi soffocati dai luoghi e dai costumi che non segue la tendenza del cinema d’autore post-Dardenne ma prova a reinventare un linguaggio contemporaneo per una lingua – quella del romanzo ottocentesco – arcaica: a Brizé non interessano troppo gli ambienti e relativamente i personaggi. Al regista interessano i fatti, come a Maupassant, e i loro risvolti sul contesto sociale, ma alla drammaturgia e alla messinscena più piana preferisce un ritmo non facile, spezzato, solenne ma interrotto da strappi di ritmo, ellissi, lavoro sul montaggio brusco (di Anne Klotz) e sulla fotografia sporca (Antoine Héberlé).
Al décor, Une vie preferisce l’atmosfera, la matericità di immagini e luoghi da cui far trascendere le emozioni (erano decadi che non si vedevano scene en plein air così vive): un’operazione che ricorda quella di Andrea Arnold in Wuthering Heights, meno radicale di sicuro, ma quasi altrettanto riuscita nel trovare un modo attuale di adattare un romanzo d’epoca: basterebbe il modo spiazzante, reticente e di finissima intelligenza con cui costruisce tutte le scene madri, soprattutto le più forti e violente. Una lezione – anche – di morale dello sguardo.
Mirko Granata per cinematografo.it