(Dal nostro inviato Silvio Grasselli)
18/11/10 – Per scelte che non ci riguardano e non ci interessano qui, il palinsesto di questa cinquantunesima edizione del Festival dei Popoli di Firenze ha offerto fin dalle prime ore alcuni dei titoli più attesi, ha presentato il lavoro di alcuni dei nomi più altisonanti uno dopo l’altro. Concentrando così, involontariamente, molte piccole e meno piccole delusioni.
Iniziamo da Kawase Naomi, uno dei nomi più conosciuti e riveriti tra le giovani leve del cinema giapponese. La sua carriera è iniziata dal cinema documentario, dalla pellicola, dal film breve, iper soggettivo e diaristico. Dopo molti film tra fiction e non fiction, Kawase torna al documentario con Genpin. Di nuovo ci si muove agli estremi dell’esistenza, di nuovo l’obiettivo intrattiene una relazione intima ma tutt’altro che lineare con i soggetti che riprende. Siamo in una clinica ostetrica, un vecchio medico guida giovani donne lungo gravidanze felici e parti naturali. Kawase lavora in video, guarda a lungo e da vicino il vecchio e le donne, osserva i volti, si tiene vicina ai corpi, anche e soprattutto nei momenti “topici”, sopra tutti il parto che viene registrato con una curiosità pudica. L’interno che esce all’esterno, il divenire palese della propria intimità, ma anche la vitalità del corpo come organo della Natura, restano temi forti che Kawase frequenta con urgenza. Qualcosa però sembra trattenerla dallo spingersi fino in fondo, dalla viscerale spietatezza usata nei film precedenti nei confronti di sua nonna e di se stessa. Non tutti i parti sono lieti, non tutti i bambini sopravvivono. Ma sembra che Kawase abbia perso il coraggio e il desiderio, che non viva più la necessità di ficcare il suo occhio coperto dall’obiettivo dentro gli anfratti più spiacevoli della realtà. Delusione inattesa ma tutto sommato irrilevante quella venuta invece dalla visione di Red Shirley, piccolo ritratto dedicato dal musicista Lou Reed alla cugina centenaria. Shirley, nata da una famiglia ebrea della provincia polacca e trasferitasi prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale nel continente americano, ha cento anni ma, nonostante la sua lunga vita avventurosa, è ancora capace di ricordare, e molto capace di raccontare. Lou Reed le si siede accanto e ascolta – interrompendoli in modo inconsulto e improvviso – i racconti della vecchia, montandoli poi in sequenze, capitoli distinti per tema e “arricchiti” da fotografia d’epoca. L’operatore continua senza sosta ad aggiustare il fuoco della macchina in modo da lasciare nitido solo il volto della donna, o, al contrario, di spostare l’attenzione sul profilo di Reed. Un gioco inutile e poco divertente.
Delusione di altro spessore quella venuta dal film firmato da Aleksandr Sokurov insieme ad Alexei Jankowski. Un viaggio lirico nelle terre dove vive, libera, una minoranza di kurdi iraniani. Una terra di confine, dove il viaggiatore anonimo al quale si attribuisce la soggettiva del film incontra una donna che nel suo destino d’apolide riassume lo spirito afflitto di un intero popolo. Sokurov/Jankowski in Il nous faut du bonheur, osservano la vita quotidiana di un villaggio, avvicinandosi e allontanandosi dai pochi protagonisti che raccontano. Non ci sono didascalie o spiegazioni, solo un pervasivo e quasi costante commento poetico: un testo dal forte colore letterario letto da quella che sembra la voce del regista di Arca russa. La nitidezza delle scene quotidiane, le dense atmosfere emotive prodotte dalla regia e dalla fotografia del film, la raffinatissima tela di relazioni costruita tra colonna sonora e colonna visiva non bastano a far dimenticare del tutto la sovrastante retorica del racconto, la pietà che spesso trabocca nel pietismo, la “poeticità” che strappa la scena alla poesia. Più grande è l’autorevolezza, più grande è la responsabilità nel momento in cui si prende parola, anche se lo si fa scrivendo per immagini.
Picture of light ha invece illuminato la sala del Cinema Odeon, aprendo la retrospettiva personale dedicata al canadese Peter Mettler. Mettler, che viene da una lunga esperienza come operatore nel cinema “industriale” canadese, si è guadagnato la fama internazionale per il suo documentarismo eccentrico, sperimentale e visionario. Il lungometraggio del 1994, il primo dei dieci selezionati per la rassegna, nasce dal suggerimento di un amico metereologo – Andreas Züst, poi anche “guida” e produttore del film – che spinge Mettler a tentare di filmare l’aurora boreale nel cielo notturno all’estremo nord del Canada. Alla ricerca e sperimentazione tecnica – la missione ha richiesto macchine da presa, batterie e altre attrezzature testate in laboratorio per poter sopportare i quaranta gradi sottozero di qulle impervie regioni – Mettler affianca la riflessione filosofica sul ruolo del medium audiovisivo nel processo di conoscenza dell’uomo. La visione è la reazione tra il singolo dato percettivo, nell’attimo presente, e l’ammasso stratificato delle immagini del passato. Il cinema, la tecnologia che sta tra il mondo e l’individuo, produce allora un doppio effetto paradossale: l’avvicinamento alle cose, l’accesso all’irraggiungibile, il potenziamento degli organi della percezione e dell’azione, ma anche l’allontanamento dell’individuo dalla realtà che gli sta intorno, costringendolo dentro una proliferante e aggressiva iper-mediazione. Picture of light è dunque una delle prime e più convincenti tappe dello stesso percorso che nel 2009 ha prodotto Petropolis, presentato tra gli eventi della cinquantesima edizione del Festival dei Popoli. Scopriremo nei prossimi giorni per quali vie siano legati questi due lontani esperimenti.