Al cinema di Guy Ritchie non si può riconoscere una coerenza stilistica non indifferente: che sia tra i gretti criminali britannici, tra le spie degli anni ’60 o in mezzo a investigatori ottocenteschi, un suo film si riconosce sempre nel bene e nel male. Anche quando, come nel caso del suo nuovo film, si ritrova a rileggere la saga (in sei film) di Re Artù in King Arthur – Il potere della spada.
Il film rilegge e in parte reinventa il mito di Artù come fosse, appunto, un personaggio tipico di Ritchie: un ragazzo sfacciato la cui nobile stirpe gli viene nascosta per proteggerlo dallo zio Vortigern, assassino del padre Pendragon e artefice di un patto malvagio per il potere assoluto. Ma quando Artù toglie dalla roccia la spada che spetta al legittimo re, comincerà il suo percorso di formazione e la lotta contro il malefico sovrano. Scritto da Ritchie con Joby Harold, Lionel Wigram e David Dobkin, King Arthur – Il potere della spada è un fantasy storico in cui il lato storico e tradizionale viene rivisto secondo i dettami scanzonati del suo regista che inietta all’estetica del genere dosi di humour e vezzi di stile tipici.
Il risultato può di sicuro far storcere il naso (e lo ha fatto storcere a molti, basti vedere le recensioni da America e Gran Bretagna), ma ha una sua dignità: dopo un prologo serioso e colossale di pura pompa hollywoodiana, Ritchie alterna l’andamento epico e la goliardia dei suoi film, lo stile – il look più che altro – affine a Game of Thrones, fatto di imponenti scenografie e numerosi chiaroscuri visivi, con i residui del videoclip anni ’90 in cui si è formato. L’Artù di Charlie Hunnam incarna perfettamente lo spirito stesso del film: un cialtrone che deve essere rieducato per crescere e giocare nei grandi, per meritarsi il ruolo e il potere, ma che non perde mai del tutto la sua vena sbruffona.
E così la super-produzione targata Warner, le battaglie, i combattimenti e i poderosi effetti speciali in bel 3D si sposano con il montaggio sincopato, il ritmo convulso e sovraccarico dei dialoghi, l’ironia sorniona e l’umorismo più greve, il cruccio di Jude Law ed Eric Bana si fonde con l’arroganza guascona di Hunnam. Peccato solo per un finale sottotono nella resa spettacolare e narrativa, ma gli amanti dello spettacolo senza pretese di Ritchie non si potranno non dire soddisfatti.
Emanuele Rauco per cinematografo.it