Un futuro imprecisato. Una metropoli imprecisata. La tecnologia ha preso il sopravvento su ogni cosa e l’azienda leader Hanka Robotics è ormai riuscita in quello che sembrava impossibile:
impiantare un cervello umano, uno “spirito” (ghost), dentro ad un corpo interamente cibernetico, un guscio (shell) indistruttibile e rigenerabile. L’ultimo esperimento, riuscito, è il Maggiore Mira
Killian (Scarlett Johansson), soldato in forza della sezione di Sicurezza Pubblica numero 9, organizzazione di antiterrorismo cibernetico che, ben presto, si ritrova ad affrontare la minaccia di un
pericoloso nemico, disposto a tutto pur di distruggere la Hanka Robotics.
C’era molto scetticismo, giustificato dalla portata cult del manga originario (di Masamune Shirow, 1989) e, soprattutto, del conseguente anime diretto da Mamoru Oshii nel 1995, intorno a questa
prima versione live action di Ghost in the Shell, diretta da Rupert Sanders: alle polemiche sul “whitewashing” imputato alla produzione, rea di aver “trasformato” i connotati asiatici del
personaggio protagonista (Motoko Kusanagi), seguiranno – immaginiamo – altri strali di malcontento per via della evidente semplificazione apportata all’intero universo e all’intreccio nativo
dell’opera.
Non basterà, temiamo, l’ottimo impianto visivo, architettonico e ambientale, elementi che riescono a fondere con discreta suggestione vari ricordi cinematografici (da Blade Runner al Quinto
elemento, passando giocoforza dalla recente performance aliena della stessa Johansson in Under the Skin di Jonathan Glazer: la sua ri/nascita da quel liquido biancolatte, su tutto), né
l’intelligente contrapposizione scenografica tra zone eccessivamente hi-tech, popolate da luci perpetue e ingombranti ologrammi pubblicitari, e favelas post-moderne dove il cielo è intrappolato nel
reticolo di infiniti e fatiscenti grattacieli dormitorio: ciò che manca, al film di Sanders, è lo scarto in grado di giustificare il senso del ritorno al futuro (era il 2029, ormai troppo prossimo anche per la nostra fantascienza…) ipotizzato da Shirow e animato poi da Oshii.
Certo, la questione fondante rimane intatta, la doppia natura di Motoko (di fatto, un robot con la coscienza e i ricordi – sopiti – di un essere umano) resta centrale nell’economia del racconto,
che però viene strutturato in maniera troppo netta, diviso tra un “prima” e un “dopo” l’incontro con il terrorista Kuze (Michael C. Pitt), quello che tanto nel manga quanto nell’anime era
conosciuto come “Il Burattinaio”, hacker in grado di manipolare la mente delle persone.
E’ da questo momento in poi che il film sembra volersi sbrigare a raggiungere una conclusione: dapprima tenuti a bada con l’assunzione di un potente siero, i ricordi del Maggiore riemergono con forza: chi era prima di essere intrappolata in quel corpo non suo? La sua vita non è stata salvata, ma rubata. Come fermare gli artefici di tutto questo?
E’ molto lineare, troppo scontata, questa riduzione live-action firmata da Jamie Moss (in sceneggiatura) e Rupert Sanders, e neanche l’apporto di pezzi da novanta come Juliette Binoche (è la dottoressa Ouelet, creatrice del Maggiore, abbastanza fuori parte diciamo) e Takeshi Kitano (che gioca a reinterpretare una sintesi dei suoi tanti personaggi “Beat” impersonando il capo della Sezione 9, Aramaki) o lo scontro finale in quella desolazione post-apocalittica à la Terminator riescono a creare quello scarto di cui parlavamo in precedenza.
D’altronde, se è vero che “Non sono i ricordi a definirci, ma quello che facciamo”, per ripetere il mantra del film, ecco che allora, in fondo, tutto torna.
Valerio Sammarco per cinematografo.it