Continua la sua marcia sul territorio nazionale, propagandosi a macchia d’olio, il film Madeleine dei registi Lorenzo Ceva Valla e Mario Garofalo.
Stanno aumentando gli schermi, dove poterlo vedere settimane facendo, grazie all’attenta strategia distributiva che hanno pianificato con Obiettivo Cinema di Emanuele Caruso. Con la co-produzione dell’ungherese AmegO Film di Andrea Osvárt, e una distribuzione anche in Ungheria, la volontà è quella di evitare caparbiamente la sorte da dimenticatoio che spesso è già scritta nel destino di ciò che esce sotto l’egida indipendente. E che è toccata alla loro opera prima in co-regia, quel Ainom (2011), che ha raccolto premi in giro per il mondo, in Cina e in Camerun, conquistando anche in territorio nostrano il Baff Film Festival di Busto Arsizio. Ma in sala?
“Ainom ha avuto dei bei riconoscimenti, ma l’abbiamo tenuto in sala qualche giorno di qua, qualche giorno di là…Non c’era una vera strategia. C’eravamo, oltre che autoprodotti, autodistribuiti in un modo un po’ confuso: queste cose s’imparano anche sulla propria pelle…”
A risponderci Mario Garofalo, ritornato questi giorni nella sua Pisa. Dopo l’anteprima al Cinema Caffè Lanteri del 27 aprile, il film è di nuovo sui suoi schermi per rimanervi fino al 10 maggio, come su tutti gli altri che lo stanno accogliendo a poco a poco, e che lo ospiteranno per le settimane che seguiranno.
Dalla sua il punto focale di un fotografo di lusso come Ceva Valla, e l’ispirazione creativa e poetica di Garofalo, che ha ammesso di essersi lasciato inspirare nella scrittura della sceneggiatura dalle atmosfere del cinema di Miyazaki, in particolare Totoro, e da Wim Wenders, e il suo Alice nella città.
Nel suo essere opera di formazione, è capace di parlare di confini da colmare, non solo emotivi e familiari: Madeleine, a piedi nudi, accompagnata dalla sorella, prenderà la strada che dalla campagna le porterà alla città, per ritrovare il padre; con lui ritorneranno, per essere di nuovo insieme, uniti, alla campagna.
Una dimensione micro, questa, che dovremmo forse ritrovare anche nella nostra realtà…
E che è un po’, credo, l’idea di produzione di questo film: tornare a una dimensione più semplice. Faccio un prodotto che non costa tanto, e ce la faccio a finirlo, senza nessun sostegno pubblico.
Lo stiamo portando in sala con una distribuzione indipendente come quella di Obiettivo Cinema, che lavora in un modo particolare: parte da una decina di città, dove pensa che il film possa essere più “forte” per il pubblico; fa una promozione molto mirata e giocata sul passaparola, e sulle relazioni più semplici, minime.
Se il film andasse bene, “fa botteghino”, alla mano i dati Cinetel di media sala che indicano che può essere interessante – e questo in una crisi totale del cinema italiano potrebbe anche succedere… – da lì passa in altre regioni, e così via in Italia.
Com’è successo proprio con E fu sera e fu mattina di Emanuele Caruso…
…che è stato un caso molto interessante di distribuzione dal basso: ha fatto alla fine un incasso di 300mila euro per un film che ne era costati 70mila. In proporzione ha molto più senso di un film italiano, per carità bellissimo, costato 2 milioni di euro, sostenuto dallo Stato, e quant’altro, che poi ne incassa 300mila: chi lo copre quel gap?
Da parte nostra c’è l’obiettivo di superare alcuni meccanismi. Ma senza polemica, solo perché altrimenti qua non si riesce ad andare avanti.
Ti devi rimboccare le maniche, o diventi una supernova che compare sullo schermo, e poi…
Si è sempre gli stessi registi, gli stessi attori… Non voglio sindacare, ci si trova spesso davanti a film davvero belli. Ma si dovrebbe riuscire a diversificare la proposta; ed è questo il problema in Italia: il pluralismo e il mercato culturali non esistono. Ma questo è un lungo discorso…
Abbiamo tempo…
Credo che il pubblico non sia stupido, credo che ci debba essere un mercato plurale per fargli avere prodotti diversi. Ognuno di noi ha bisogno di qualcosa, non abbiamo bisogno tutti della stessa cosa. Ciò che si deve fare è arrivare al pubblico giusto, che esiste sempre: se l’opera ha un suo valore si intende, e a volte anche se non ce l’ha…Comunque, partiamo dal presupposto che un film abbia un suo valore: ha anche un suo pubblico. Invece, in Italia è tutto un po’ soffocato, e non avviene questo incontro. Non si ha il “sistema” per permettere che avvenga.
Facendo i conti in tasca al vostro film?
È costato 130mila euro, però il valore di lavoro è 360mila: noi non ci siamo pagati, abbiamo rischiato direttamente, con un rischio personale, ognuno con la sua fetta. Abbiamo avuto piccoli aiuto, dalla Film Commission Torino Piemonte solo di tipo logistici. Finalmente, abbiamo incontrato la co-produzione ungherese che ci ha dato una mano a finirlo a Budapest.
Sono questi tutti soldi che devono rientrare, come se fosse un qualsiasi altro prodotto. Uno fa un tavolo e deve piazzarlo. In Italia è un po’ tutto falsato: uno fa un film, e poi se nessuno lo vede non importa.
Giacomo d’Alelio