Regista, cinefilo storico, insegnante al Centro Sperimentale, critico e anche romanziere: nelle vene di Gianni Amelio scorre l’energia del cinema. E anche a settant’anni ha ancora voglia di mettersi in gioco, con quel suo talento che ci ha regalato capolavori come Il ladro di bambini e Il primo uomo. La coerenza narrativa e la sobrietà dello stile lo contraddistinguono in un panorama che punta sempre più all’orpello, invece di focalizzarsi sulle emozioni.
Il 13 settembre dell’anno scorso Mondadori ha pubblicato il suo primo romanzo Politeama, il 24 aprile di quest’anno esce nelle sale La Tenerezza. Che cosa significa essere un narratore moderno?
Forse significa raccontare delle storie senza pregiudizi, non essere condizionati dai diversi linguaggi, come succedeva una volta. C’erano tempi in cui gli scrittori (penso a Mario Soldati) si concedevano al cinema per vile denaro, la nobiltà stava nella pagina scritta. Forse Pasolini è stato anche in questo senso un innovatore. Ma nel mio caso, da esordiente, non faccio testo. Girerò altri film e scriverò altri libri se me lo permetteranno, stando attento a non mescolare le carte. Di una cosa sono certo: non farò mai un film tratto da un mio romanzo.
Di quali storie ha bisogno la platea in quest’epoca di incertezze?
Non di storie falsamente rassicuranti. Più i tempi sono difficili, più si ha il dovere della sincerità, di uno sguardo onesto, anche duro, se è il caso. Il minimo che si possa chiedere a un narratore (cinema o letteratura non fa differenza) è di non ingannare se stesso e di conseguenza gli altri. Ma è un credo che dovremmo seguire tutti, come individui, come persone.
Con Così ridevano si è rifatto al grande melodramma di Rocco e i suoi fratelli. Con L’Intrepido ha raccontato la precarietà della vita di oggi. Quale impatto può avere un film come La Tenerezza?
Non lo so, me lo domando anch’io. E’ un film talmente diverso dagli altri, meno definibile, più inquietante… A suo modo è un film corale, dove ogni personaggio fa i conti con i sentimenti propri e altrui in un momento in cui la vita quotidiana, nella sua apparente normalità, viene scossa dalla tragedia. Se non cerco una facile consolazione, sento il dovere di non essere disfattista, di darmi coraggio e di condividerlo.
Che cosa è cambiato da L’intrepido (2013) a oggi nel cinema italiano?
Si è giustamente alimentato l’interesse per le grandi serie televisive. Il fatto stesso che si parli più di “serie” e meno di “fiction”, ci dice che siamo sulla buona strada. Il film “seriale” è un fatto molto positivo, che viene incontro al desiderio che ogni regista ha di non abbandonare i propri personaggi. L’altra novità è l’importanza che ha assunto il documentario, il cinema del reale. Penso che, negli ultimi anni, la barriera tra cinema d’invenzione e cinema di testimonianza sia quasi scomparsa per fortuna.
Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Greta Scacchi, Renato Carpentieri, Giovanna Mezzogiorno: quali sono i segreti per dirigere un cast di spessore?
Nessun segreto. O forse sì. Dirigere gli attori come faccio con gli allievi del Centro Sperimentale: poche chiacchiere ad alta voce e ricerca di un rapporto più intimo, più segreto. Ogni attore, anche grandissimo, ha le sue fragilità (penso a Volontè, a Jean-Louis Trintignant, a Charlotte Rampling…), quindi bisogna rispettarle e farle proprie. Solo così l’attore si sente guidato e ti dà fiducia.
Il suo ultimo film è una storia di anime perse in una Napoli violenta. Dove si può trovare la tenerezza in un mondo che sembra popolato da naufraghi?
Ce lo chiediamo ogni giorno, ci auguriamo che il miracolo succeda, nonostante tutto. Ma forse è più semplice di quanto crediamo: trovare il coraggio di fare per primi il gesto che ci avvicini agli altri, che spezzi le distanze.
Truffaut diceva che i film devono contenere “un’idea di mondo e un’idea di cinema”. Qual è la sua idea di cinema?
Un solo comandamento: il cinema deve dire la verità. Lo sguardo della cinepresa è implacabile, se menti lo scopre subito.
Gian Luca Pisacane