Il regno di Ceylan

Ferzan Ozpetek al Festival del Cinema Europeo di Lecce è arrivato per accompagnare e presentare il suo amico e connazionale Nuri Bilge Ceylan. Si sono conosciuti nel 1997 al Festival di Antalya, quando Il bagno turco del primo colpì l’immaginazione del secondo. Una amicizia e stima che si sono consolidate negli anni. Forse per questo Ceylan, che nel 2014 ha ricevuto la Palma d’Oro per Il regno d’inverno, solitamente schivo, ha ripercorso con grande tranquillità e dovizia di particolari la sua carriera, rispondendo alle domande relative al suo passato, alla sua vita e ai suoi progetti. Questa sera riceverà l’Ulivo d’Oro alla Carriera. Ma non di premi inizia a parlare, quanto di ciò che non cerca mai di fare nel suo cinema. “Nei miei film non intendo dare nessun tipo di messaggio e fare dichiarazioni. Sono un uomo e un regista che prima di tutto va alla ricerca di un senso. In qualche modo la vita mi fa piovere addosso delle immagini che poi cerco di collocare all’interno di situazioni reali, perché, come tutti, sono un essere umano che vive dolori, dubbi, ho le mie preoccupazioni e le mie turbolenze, anche molto forti, e cerco in qualche modo di capire meglio la vita umana raccontandola. Per questo, parlando anche da spettatore, non ho mai amato quei film che partono con una idea specifica volendo dare un messaggio concreto e forte, perché devo essere io a trovare il mio senso e ad attribuire un significato a quello che vedo e sento. Io cerco il misterioso, mi interesso e mi incuriosiscono di più cose che non ho ancora ben afferrato, quindi è proprio dietro quelle che costruisco la mia arte”.
Raffinatissimo scrittore di tormentate sceneggiature.
La scrittura di una sceneggiatura per me è una grande incognita, un grande indefinito. Provo spesso anche un senso di impossibilità nella riuscita. Sono talmente scoraggiato che talvolta mi sono detto incapace di portare a termine un film. È un momento sempre di grande sofferenza. Però ho scritto i miei ultimi quattro film in squadra, tre, quattro persone. Devo dire che mia moglie è sempre stata al mio fianco e si è rivelata preziosa. È fondamentale il lavoro di “brainstorming” per la creazione di qualsiasi testo, perché la mente di una persona sola, pur brillante, incappa sempre in vicoli ciechi. Sono come delle falle nella scrittura che non riusciamo a capire da cosa derivino, la collaborazione evita questo pericolo. Comunque scrivere una sceneggiatura per me è un lavoro che non si completa mai, un processo che procede tra speranze e scoraggiamenti, fino a quando alzo la testa e mi accorgo che ho materiale per iniziare un film. Continuo comunque a modificarlo durante le riprese e il montaggio. Credo in questa libertà. Forse è questo grande dubbio che conferisce ricchezza alle mie opere.
I suoi film sono spesso stati descritti come cechoviani. Che rapporto ha con lo scrittore russo?
È il mio autore di riferimento. Ha saputo scrivere di tutto ciò che riguarda la vita e l’uomo, nella ricchezza delle sfaccettature della sua anima, affascinante e complessa. Tutte le volte che scrivo un mio film inserisco molti riferimenti ai suoi racconti. In Regno d’inverno mi sono ispirato a Le belle e La moglie. Ho una tale familiarità con lui che non riesco più ad isolare i singoli casi della sua influenza sulla mia personalità e nella mia espressione artistica. Mi ha sempre colpito perché parla di sentimenti molto sottili, spesso impercettibili. Un uomo che mantiene sempre una certa distanza dalle proprie emozioni, in questo molto diverso da Dostoevskij. Dai suoi racconti ho adottato per la scrittura dei miei film questo suo approccio alla vita. Credo che poi l’immagine m’abbia aiutato molto a realizzarlo: le sottigliezze che lui affida alle parole io le affido alle immagini.
Momento creativo particolarmente delicato e lungo anche il montaggio.
Per me il montaggio è la fase più importante della creazione dei miei film. Forse per la mia grande indecisione, perché sono una persona che non ha le idee molto chiare durante le riprese e sono un indeciso e un vago anche nella vita. Ma questo può diventare un punto di forza perché così posso lavorare su centinaia di probabilità per rendere al meglio la psicologia umana. Per me è molto importante. Sfrutto il poco tempo che ho a disposizione durante le riprese per fare più versioni possibili di quello che ho in testa in modo di avere, quando arrivo al montaggio, molto materiale. Diventa una fase lunga, ma anche molto produttiva, perché lì cerco di ricostruire o di trovare certi equilibri e dare così la struttura definitiva che voglio per il mio film.
Dopo la letteratura, immancabile chiederle quali sono i suoi registi di riferimento.
Bresson, Tarkovskij, Bergman. Tra gli italiani, Antonioni, una figura fondamentale della storia del cinema. Ho amato tutti i suoi film, soprattutto L’eclisse e L’avventura. Credo che abbia saputo dar voce e rappresentare quello che forse fino a quel momento per il cinema era considerato non degno di trovare una espressione cinematografica, mentre io ritengo i suoi soggetti molto importanti per la vita. Ha saputo dare in tutta la sua opera il giusto peso e il giusto spazio alla natura umana.
La ritroveremo sicuramente, la natura umana nella sua mutevolezza, anche protagonista del suo prossimo film.
Al momento si intitola Il pero selvatico, ma potrebbe cambiare, perché anche i miei titoli sono sempre soggetti a discussioni e cambiamenti. Io sono nato a Istanbul, però all’età di due anni, insieme ai miei genitori, ci siamo trasferiti a Çanakkale, sulla sponda asiatica dello stretto dei Dardanelli. È la città dove ho trascorso la mia infanzia e dove avevo girato i miei primi film, quindi questa volta ci sono tornato volentieri per le riprese. È la storia del rapporto tra un padre e un figlio, in realtà è anche la storia di un insegnante. Non amo mai assumere un atteggiamento didattico nei miei film però in questo caso racconto la sua storia perché è legata alla mia vita. Tutte le volte che andavo a visitare i miei parenti mi imbattevo in un uomo che appunto faceva l’insegnate, era sposato con una mia parente, e mi affascinava perché lo trovavo molto saggio, ascoltavo con interesse tutto quello che aveva da dire. Ma notavo che non riceveva, per un motivo che all’epoca mi era ancora ancora sconosciuto, quel rispetto che invece c’era nella mia testa e si sarebbe meritato. Quindi ho cominciato a indagare sui motivi di questo atteggiamento e mescolando, come faccio sempre, altri racconti ad esperienze personali, ho costruito questo testo che è diventato un film. Molto parlato, come Regno d’inverno. Quanto agli attori, sono tutti professionisti ben conosciuti in Turchia.
Sarà a Cannes?
Non quest’anno. Il lavoro di montaggio può durare anche sei mesi. Quindi il film potrebbe essere pronto per il prossimo Festival, nel 2018.
Il regno d’inverno ci ha fatto scoprire una Anatolia misteriosa.
La location di un film, lo dico sinceramente, per me non ha tutta questa importanza. Forse i critici le hanno attribuito un valore più carico di quello che faccio io. Per me è la natura umana nella sua complessità il punto di riferimento, da quella dipende tutto il resto. Non parto mai dal luogo, parto dall’uomo. Mi piace comunque girare sia nelle metropoli che negli ambienti rurali, basta che l’ambiente sia compatibile con la storia che voglio raccontare.
Immagine e suono: per lei sono della stessa importanza nello sviluppo creativo di un film?
Il cinema è un’opera visiva, il film si guarda. Il suono mi permette di risparmiare sull’inquadratura, può essere un risparmio narrativo. Sull’aspetto visivo mi definisco un realista perché tengo moltissimo alla verità di quello che sta realmente accadendo davanti ai nostri occhi, mentre amo dare al suono una impressione più surreale, perché l’orecchio umano riesce a percepire milioni di stimoli che meticolosamente selezioniamo e questi contribuiscono a dare un senso a quello che vediamo. Così riesco a manipolare l’immagine e condurre lo spettatore verso l’obiettivo che ho in mente. Non amo, invece, la colonna sonora: la musica a volte mi si presenta come una stampella alla quale il film si appoggia nei momenti di debolezza o di vuoto. Non mi piace che lo spettatore sia emotivamente trascinato verso qualcosa che non deriva da quello che sto raccontando e dall’obiettivo che mi sono prefissato. Ma non ho regole rigide.
Coltiva ancora la sua passione per la fotografia?
Sono dell’idea che se una persona sviluppa diversi interessi e passioni, però non riesce ad applicarcisi appieno con tutto sé stesso, dedicandoci la vita, non riesce a raggiungere la profondità e il significato molto ampio che intende trovare nel proprio lavoro. Il cinema, che è istinto e intuizione, mi ha dato la possibilità di lavorare su un ventaglio assai ampio di situazioni umane con infinite tipologie e sviluppi. La fotografia è un lavoro solitario e terapeutico per me. Ma è nel cinema che cerco e trovo la profondità dei miei personaggi, della loro natura. E rimane al primo posto nella mia vita.

Luca Pellegrini