Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Lo scatenato” (1967) di Franco Indovina: pop-cinema italiano, alienazione antonioniana e puro comico s’incontrano in un film misconosciuto e finalmente ritrovato
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
26/10/10 – Franco Indovina è scomparso troppo presto, e i pochi film che ci ha lasciato sono ingiustamente dimenticati. De Lo scatenato non si sentiva più parlare da anni. Non fu capito all’epoca, e la sua comicità resta così poco italiana, così eccentrica e “nullo-diretta” (non cerca praticamente nessun tipo di pubblico) che probabilmente avrebbe difficoltà a catturare anche un pubblico odierno. Di solito si parla di film che invecchiano male, di opere datate: Lo scatenato non può permettersi nemmeno questa definizione, dato che si muove per percorsi fuori dal tempo. Lontano da identificabili coordinate pregresse, radicato nella sua epoca ma al tempo stesso surreale e universale. Non ha passato né futuro, e magari potrà anche indisporre o lasciare indifferenti. Ma mostra, senza dubbio, un grande, personalissimo talento autoriale. Onore al merito, dunque, alla retrospettiva sul comico italiano “La situazione comica” che all’ultimo Festival di Venezia ha restituito a Lo scatenato e al suo autore un giusto riconoscimento.
Indovina conduce un’operazione estetica del tutto originale. Nel 1967 si è in piena epoca di alienazione e incomunicabilità, identificata in un canone estetico ormai consolidato, quello di Michelangelo Antonioni. Epoca di massificazione e mercificazione, di “cosificazione”, come direbbero i francesi del nouveau roman. La mania collettiva per la tecnologia impazza, nascono nuove forme di comunicazione, come la pubblicità e gli antenati degli attuali spot. L’oggetto e l’esposizione del sé diventano cardini di una società che va incontro a un rapidissimo e incontrollato progresso, così come si moltiplicano esponenzialmente le possibilità di riproduzione del proprio corpo in immagine. L’io, inteso come identità individuale e sociale, rasenta sempre più il rischio della propria fatale frantumazione. In cotanto contesto di inumana efficienza, Indovina e i suoi cosceneggiatori (Tonino Guerra e Luigi Malerba) tentarono d’inserirvi il comico come elemento disgregante, inteso nella sua accezione più pura ed essenziale. Comico che scaturisce da conflitti minimi, dallo scontro tra l’essere umano e l’altro-da-sé, nella fattispecie tra uomo e animale. Ma anche conflitto dell’essere umano con la propria riproduzione in immagine (l’attore narciso che teme d’invecchiare, la tragica discesa verso ruoli sempre più marginali…). Ricorda, molto alla lontana, il cinema di Jacques Tati, che tuttavia conduceva il proprio discorso ancora più radicalmente, rinunciando del tutto alla parola e affidando la narrazione di una nuova “surrealtà” al puro movimento in scena e alla reiterazione di rumori e interferenze ambientali. Indovina è più diretto, un tantino più vulgato, e non rinuncia a una morale, sia pure mai troppo declamata. Di tutto l’apparato espressivo di Indovina, ciò che appare più superato è il dato visivo; per una visione moderna la fotografia pop a colori warholiani è difficilmente digeribile. Ma raramente si è visto, negli anni ’60 della canonica commedia all’italiana, un film così visceralmente radicato nelle ragioni più archetipiche del riso.
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