Venezia 67: è la volta di Abdellatif Kechiche con l’ottimo “Vénus Noire”, mentre l’ex-underground anarchico “duro e puro” Alex de la Iglesia piega verso la convenzione visiva con “Balada triste de trompeta”
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
09/09/10 – E’ una tendenza ricorrente nella sezione-concorso della 67. Mostra del Cinema di Venezia: autori dagli illustri precedenti, le cui opere hanno sempre evidenziato una forte individualità e una diversificata ricerca stilistica, si presentano con opere più convenzionali, dalla retorica espressiva più immediata, meno perturbante. E’ successo con Tran Anh-Hung, con Tsui Hark, con Darren Aronofsky. Succede anche con Abdellatif Kechiche, che tuttavia presenta un’opera potente e comunque personale, e soprattutto con Alex de la Iglesia, autore proveniente dall’underground spagnolo più “sporco” e scorretto, che ripulisce per tutti i palati il proprio consueto immaginario.
Vénus Noire di Kechiche propone una storia vera, che tuttavia allude a sentimenti umani tendenti all’universalità. Mai tramite una narrazione meccanicamente esemplare, né piattamente cronachistica, bensì secondo una sua cifra personale (questo sì) di ampi e distesi capitoli narrativi, simili all’episodio, che tuttavia non perdono mai di vista una solidissima tenuta unitaria. Kechiche narra esclusivamente tramite la “messinscena”, intesa nel vero senso della parola. Messa in scena del corpo di Saartjie, lungamente esposta, di volta in volta, alla pubblica meraviglia, sconcerto e orrore, e che occupa ogni singolo capitolo in relazione all’incontro-scontro col mondo circostante. In tal modo Kechiche giunge a narrare non solo la tragica condizione di un “freak”, ma anche e soprattutto la crudeltà dello sguardo altrui, che può trasformarsi in violenza quanto e più dell’aggressione fisica. Da antologia la sequenza centrale, la più riuscita e dolente, in cui il tatto si tramuta nella forma più denigratoria di violenza, provocando l’unico vero crollo emotivo di Saartjie. Kechiche sorregge il tutto grazie a una tesissima corda narrativa, e grazie a una prova straordinaria della sua attrice, Yahima Torres, per la quale si può prevedere (e ci si augura sinceramente) l’assegnazione della Coppa Volpi.
All’inverso, Alex de la Iglesia fa scompisciare e fa anche un po’ ribrezzo per tutta la prima metà del suo Balada triste de trompeta, per poi accartocciarsi in una seconda parte pesantemente ridondante, ripetitiva e noiosissima. Che induce a rileggere tutto il film e a far caso a tutte le anonime convenzionalità in cui pare arduo riconoscere il trasgressivissimo, “trashissimo” autore di qualche anno fa. A dire il vero, il ripiegamento dell’autore su un linguaggio molto più massificato è evidente da subito: scenografie curatissime, fotografia preziosa, giochi di macchina da presa vertiginosi come nella migliore tradizione hollywoodiana, montaggio “alla Ridley Scott”, tronfio commento musicale. Sulle prime lo spirito anarcoide e la follia narrativa (storie di circo e di pagliacci tristi invischiati in un sanguinosissimo triangolo amoroso) fanno passare in secondo piano tutto il resto, tanto il film si mostra per lunghi tratti francamente divertente. Peccato però che tutto si disperda a poco a poco, e che il gioco mostri la corda ripetendosi all’infinito. Difficile, davero arduo rintracciarvi il de la Iglesia che conoscevamo.