Venezia 67: blockbuster “americorientale” con Detective Dee and the Mystery of Phantom Flame di Tsui Hark e conflitti primordiali tra uomo e natura con Essential Killing di un ottimo e ritrovato Jerzy Skolimowski
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
06/09/10 – Lo sdoganamento dei generi in concorso alla 67. Mostra del Cinema di Venezia prosegue (inaugurato non in questa edizione, ma in atto già da qualche anno), e stavolta giunge ad accogliere anche un puro, vero, indubitabile blockbuster. Tsui Hark appartiene a una generazione di autori orientali che, con il loro cinema adrenalinico e ipercinetico, sono usciti a poco a poco dall’apprezzamento delle nicchie di cinefili e hanno conquistato l’acclamazione di un vastissimo pubblico internazionale. Certo, in Detective Dee, presentato stamattina al Lido, rimane ben poco di orientale. Paradossale, in fondo, poiché il racconto affonda le proprie radici, come d’uso, in antiche leggende cinesi e in profonde tradizioni culturali. Tuttavia la messinscena non ha nulla da invidiare a un qualsiasi filmone pepsi-e-popcorn sfornato in America, e, se si è in cerca di visioni autoriali e individuali, beh ci troviamo esattamente all’opposto, in un contesto di piena aderenza a una retorica espressiva impersonale, vulgatissima e massificata. Ritroviamo le solite mirabolanti coreografie wuxapian, i soliti personaggi algidissimi e tutti d’un pezzo. Ma il tutto è declinato secondo un facilissimo linguaggio, che rifiuta a priori l’idea di cinema come “visione” e che, nella sua estrema semplicità, pare piegarsi a una narrazione realmente diretta a un pubblico infantile. Il diritto al concorso di un onesto blockbuster è più che legittimo, a patto però che si rispettino i minimi principi di un racconto per immagini. E allora ci sia concesso di dire che la scrittura del film è goffissima, che la struttura di giallo è incoerente e farraginosa, che gli interminabili “spiegoni” inseriti nei dialoghi sono insostenibili. Ci si diverte, ma alla lunga ci si annoia anche un po’.
Lietissimo ritorno, invece, per Jerzy Skolimowski. Il suo Essential Killing è tra le cose migliori viste in concorso fino a questo momento. Il ritrovato autore polacco opera una scelta radicale già in sede di sceneggiatura: raccontare, in poco meno di un’ora e mezza, solo ed esclusivamente per immagini, e in particolare tramite lo scontro eminentemente fisico tra essere umano e alterità. Rifiutando recisamente il dialogo e chiudendo tutta la narrazione su un unico personaggio in scena, Skolimowski risale alle origini primordiali del cinema. Movimento di macchina e montaggio: questi gli unici strumenti adottati. In più, pur centrando il racconto su un terrorista islamico e sulla sua fuga in mezzo alle nevi di una simil-Siberia, Skolimowski si tiene lontanissimo da qualsiasi tentazione allegorica, storicistica o quant’altro. Non ha verità da svelare, né tesi da mostrare. Il suo è un film rigorosissimo, che sposa appieno, oltretutto, uno dei topoi culturali più radicati nella tradizione slava: il conflitto tra la parte più oscura e ferina dell’essere umano e una natura altrettanto violenta e minacciosa. Peccato per le infelici parentesi oniriche (possibile che il personaggio sogni sempre gli stessi suoni e ambienti? Il sogno non è forse una dimensione più astratta e mutevole?), che tolgono forza a un racconto altrimenti perfetto, secco e all’antica.