Venezia: pochi soddisfatti

03/09/10 - 67. Mostra del cinema di Venezia: il concorso vola basso, tra lo sconcertante spirito da...

67. Mostra del cinema di Venezia: il concorso vola basso, tra lo sconcertante spirito da esportazione di Tran Anh Hung con “Norwegian Wood” e il simpatico (ma niente di più) travaglio tra trasgressione e ipocrisia in “Happy Few” di Antony Cordier

(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)

03/09/10 – La sezione ufficiale di Venezia 67 stenta a decollare. C’è stata una buona accoglienza per La pecora nera di Ascanio Celestini, ma al momento domina generalizzato un vago sentimento di delusione. Darren Aronofsky non convince appieno, Julian Schnabel svela tutta la fallacia della sua retorica espressiva alla prova del nove (e non è la prima volta) dell’opera storico-civile. E delude terribilmente anche una vecchia conoscenza di Venezia, il franco-vietnamita Tran Anh Hung, già Leone d’Oro nel 1995 per Cyclo. Alle prese con la trasposizione di un notissimo romanzo giapponese, il Norwegian Wood di Haruki Murakami, Tran rovina paurosamente in un’affannata ricerca di stile, che in ultima analisi appare solo confuso e balbettato. Colpisce, più di tutto, l’involgarimento anodino e impersonale del suo tratto, l’asservimento a una generica e patinata forma d’immagine che è pura “poetica d’esportazione”. Il romanzo di Murakami, in realtà, si proponeva come materiale incandescente per una lettura sia di doloroso e fiammeggiante “melodramma di formazione”, esteriore e gridato, sia per un’interpretazione più sottile, più meditata, chiave, questa, che si presupponeva ideale per un autore come Tran. Il risultato, invece, è un anonimo polpettone sottovoce, che riecheggia lo stile leccato e senz’anima di tante coproduzioni europee. Qua e là l’autore riesce anche a cogliere nel segno, soprattutto nel personaggio di Naoko, ben disegnato da Rinko Kikuchi (una conferma dopo la sua ottima prova in Babel di Inarritu) nella sua prigione psichica, la forma più alta e più struggente di quella fuga nella giovinezza, di quel farsi dei rimpianti momento dopo momento man mano che la giovinezza si trasforma in passato, che più di tutto caratterizza il romanzo di Murakami. Ma tale pregnanza, melodrammatica se non tragica, annega in una sconcertante impaginazione neutra, a cui non giova nemmeno una totale incapacità di sintesi.

Ingenerosi, al contrario, i fischi e gli ululati che hanno accolto Happy Few di Antony Cordier alla fine della proiezione stampa. Senz’altro si tratta di un’opera che non meritava il concorso, che non si distingue per particolari meriti stilistici, collocandosi esattamente nel solco della media produzione francese, tradizionalmente mai al di sotto della soglia della corretta professionalità. Tuttavia il discorso di Cordier, un po’ risaputo nei suoi punti nodali, è condotto con grande persuasione, sorretto da un ottimo lavoro di sceneggiatura. Certo, il cinema francese da festival (ma tutto il cinema francese di prima fascia) flirta anche troppo scopertamente con gli arabeschi psicologici e con le infinite possibilità dell’essere umano, spesso indagato in contesti reali ma secondo provocazioni “oltre la realtà”. Tratto riconoscibile, talvolta cliché, che però Cordier ben finalizza a un racconto sui confini fisici del corpo, della psiche, sul desiderio/gioia/gioco/fallimento dell’esperienza dell’altro. Niente di nuovo, canonicamente francese, ma degno di rispetto. E che, se pecca, lo fa soprattutto per un certo “moralismo di ritorno” sul finale.