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“Corri uomo corri” (1968) di Sergio Sollima: lo spaghetti western sessantottino, exploitation di genere in chiave di consapevole rilettura politica
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
20/07/10 – Tra i prodotti più bizzarri della sfrenata contaminazione di generi che si produsse nell’exploitation italiana anni ’60 e ’70, merita particolare curiosità il fenomeno del “western politico”, che trovò in Sergio Sollima il suo autore più convinto, declinazioni più alimentari in Sergio Corbucci, sentita partecipazione in Carlo Lizzani (l’indimenticabile Requiescant con Lou Castel e Pier Paolo Pasolini in veste d’attore), ottime sceneggiature in Franco Solinas e atteggiamento “borderline” in Sergio Leone. Che elevò a stile lo spaghetti western tramite una rilettura critica del genere in sé, in una chiave più estetizzante e metafisica, fuori da contesti prettamente contingenti, ma che poi, forse “per non sembrare da meno”, girò con poco amore Giù la testa (1971), storia di rivoluzione messicana con citazione in apertura nientepopodimenoché di Mao Tse-Tung, che nel soggetto ricorda molto da vicino <strong>Corri uomo corri di Sollima.
In effetti, è poco esatto catalogare nello spaghetti western il filone messicano, poiché del western propriamente detto, sia pure riletto in chiave critico-consapevole-demenziale, non mantiene granché. Di quel canone conserva l’atteggiamento scanzonato e anarcoide, generato dalla contaminazione più folle e più italiana possibile, ossia il western e il film d’azione con la commedia all’italiana. Anche Corri uomo corri affonda nelle radici più archetipiche della novella, componendo elementi diegetici al loro grado zero. L’azione è mossa dalla ricerca di un tesoro, al centro un personaggio picaresco, Cuchillo, sbruffone, scanzonato e piovuto nella storia per caso, eroe comico e suo malgrado. C’è Boccaccio, c’è Don Chisciotte, c’è la posta in gioco, c’è la demistificazione comica dell’eroe e del genere (Chelo Alonso che prende Tomas Milian a schiaffoni doppiatissimi…), e tutto sommato l’ambientazione nel Messico delle rivoluzioni sottoproletarie è poco più che pretestuosa. Fu in altre opere che Sollima, sempre affidandosi al pazzoide Tomas Milian, tentò riflessioni più serie su potere e rivoluzione (Faccia a faccia del 1967, in cui non a caso Milian si confronta con Gian Maria Volonté), sposando, con incredibile contaminazione, lo spaghetti-western al film a tesi, tipico di quegli anni. Corri uomo corri, invece, si mostra già come una rapidissima cristallizzazione, probabilmente inconsapevole, del “sottogenere alla messicana”, in cui gli elementi appaiono decontestualizzati ed elevati all’eccesso dell’iperbole grottesca. Cosicché la narrazione è interessata solo a proseguire, esiste di per sé e in sé si giustifica. Ma del “western politico” anche Corri uomo corri conserva il tratto più distintivo, ossia la narrazione di una presa di coscienza da parte di un sottoproletario anarcoide e disimpegnato a contatto con la rivoluzione. Canone narrativo che pure Sergio Leone, sempre un po’ schifiltoso verso i suoi “cugini” di genere, tuttavia non disdegnò in Giù la testa per il personaggio di Rod Steiger. E i tormentoni di Cuchillo, incredibilmente, divennero slogan delle proteste di piazza anni ’70.
Guarda il trailer americano del film: