Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Il fischio al naso” (1967) di Ugo Tognazzi: strade inconsuete per il cinema italiano, tra (dolorosi e meditabondi) surrealismi pop e convenzioni da commedia all’italiana
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
06/07/10 – Ugo Tognazzi è stato anche regista. Oggi pochi lo ricordano. Forse l’unica sua opera a essersi ritagliata un piccolo spazio nella memoria collettiva è Il fischio al naso, sua opera seconda, innanzitutto per la nobile ascendenza letteraria (un racconto di Dino Buzzati, Sette piani, tradotto già in teatro dallo stesso Buzzati in Un caso clinico per la regia di Giorgio Strehler), poi per la sua eccentricità in un contesto, fine anni ’60, di dilagante e stilizzante commedia all’italiana. Di solito i grandi attori della nostra commedia, in veste di autori, non hanno mai raccolto grandi risultati. Uno su tutti, Alberto Sordi da regista fu molto prolifico, ma, tranne in rarissimi casi, anche molto deludente. Ugo Tognazzi, invece, non mostra certo doti sopraffine di metteur en scène, ma appare mosso da un apprezzabile impasto di ambizione e umiltà. Ambizione per la serietà con cui si assume i rischi di narrazioni inconsuete, secondo linee estetiche e stilistiche poco percorse e poco “nazional-popolari”. Umiltà per il rifiuto di utilizzare la regia come mero strumento di esaltazione di se stesso in veste di attore, elemento comune invece a tutti i suoi colleghi che passarono dietro la macchina da presa secondo uno schema di gestione totale del proprio talento in funzione dell’immagine più popolare che di loro aveva il pubblico.
Ne Il fischio al naso, non tanto sul piano estetico, quanto sul tipo d’ispirazione, si avverte la stretta frequentazione di quegli anni tra Tognazzi e Marco Ferreri (che si presta al film in un breve cameo), di cui non a caso troviamo il più fidato collaboratore alla sceneggiatura dell’epoca, Rafael Azcona, tra gli accreditati in sede di scrittura. Anche Il fischio al naso, infatti, flirta col surreale e con l’iperbole grottesca, ma in chiavi sostanzialmente diverse. Non ha la forza di trasformarsi in apologo, né in racconto allegorico, bensì resta a una mezza strada, tra convenzioni da commedia all’italiana, in qualche modo rispettate, e surrealismi di messinscena, tra macchinari avveniristici e miti del salutismo in colori e poetica pop. Certo, per chi conosce il racconto di Buzzati (che pure contava pochissime pagine) l’opera di Tognazzi pare riduttiva e facile. Tognazzi sviluppa con esso un rapporto intuitivo, e tuttavia il coté buzzatiano più cupo e metafisico è in qualche modo percepito dal Tognazzi autore e, con gli strumenti a lui disponibili, messo in immagini. Perciò la fuga disperata nel parco, perciò quelle pagine, un tantino scoordinate e schizoidi rispetto al resto del film, in cui emerge un sentito dolore per il mistero della vita e della morte che rende merito, sia pure in piccola parte, alla sostanza di Buzzati. Perciò il sapiente sviluppo del personaggio di Giovanna, ispirato alla versione teatrale del testo in cui Buzzati aveva già rimpolpato narrativamente il proprio racconto in una chiave più accessibile e realistica. Certo, la lettura di Tognazzi piega verso facili conclusioni, anche un po’ moralistiche (il cinismo anni ’60, la famiglia rapace, la mania del modernismo tecnologico…), ma l’anelito a “qualcosa di diverso” gli fa comunque onore.