Shahrzad Dadgar, classe 1989, è nata in Iran e da autodidatta a 17 anni ha iniziato a girare piccoli filmini di famiglia per poi intraprendere studi di regia e di fotografia presso la Hilaj Film School di Tehran. E per il suo primo cortometraggio Cinquecento once d’oro, presentato in concorso internazionale al Ca’ Foscari Short Film Festival, resta ancorata ad un storia familiare molto dolorosa (fiction con tratti di realismo molto marcati) che Dadgar sa indagare con un’attenzione allo spazio della narrazione che diventa protagonista insieme alla coppia di giovani sposi. Amir e Sima, dai risultati di alcune analisi, scoprono che il loro futuro bimbo potrebbe soffrire della sindrome di Down. La coppia si divide sul da farsi perchè la donna è contraria all’aborto; inoltre, in caso di intervento, la coppia sarà costretta a pagare allo Stato una multa pari a 500 once d’oro.
Amir e Sima si chiudono nei loro rispettivi dolori, protagonisti nella solitudine che li emargina, incapaci di parlarsi, persino di sentire la presenza dell’altro (molto forte e significativa la scena con l’uomo chinato a riparare una moto e la moglie che arriva con il pranzo che incidentalmente cade). Gli spazi sono quasi tutti interni chiusi (lo studio del dottore, la casa), quasi claustrofobici con finestre serrate con la macchina da presa molto stretta sui corpi per rilevare la condizione degli animi dei protagonisti, incapaci di decidere e soprattutto di comunicare anche solo con un abbraccio. La regista nell’intervista ci racconta molto bene come ha lavorato per costruire le tre scene all’interno dell’autobus che, in tempi diversi del film, scandiscono proprio l’allontanamento di corpi e di cuori.
giovanna barreca