Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
I delfini di Francesco Maselli (1960): altri “vitelloni” di provincia, decadenze moraviane in salsa sociologica
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
04/05/10 – Nel 1960, quando il boom economico italiano è appena agli albori e tuttavia l’aria si è già fatta cinica e superficiale, sugli schermi italiani arriva l’amara consapevolezza di un’epoca e una cultura in via di disfacimento. Potremmo chiamarlo il “cinema moraviano”, fatto di narrazioni amare e disincantate, radicate in quell’analisi della neo-borghesia italiana, della sua ipocrisia e soffocante immobilità che delineerà con sguardo impietoso panorami sociali desolanti per un’Italia poco più che postbellica. Alberto Moravia ha fornito un’infinità di soggetti per il cinema, tratti dai suoi romanzi o scritti direttamente per lo schermo: non è mai passato dietro la macchina da presa, ma per interposti registi ha finito per fondare una sua poetica cinematografica, tanto che è più facile, in quei film, riconoscere la mano dietro al soggetto che lo sguardo dietro la macchina da presa. Non stupisce, perciò, trovare il nome di Moravia accreditato alla collaborazione per la sceneggiatura de I delfini di Francesco Maselli, film per cui, dalle dichiarazioni dello stesso regista, curò il copione sviluppato da un soggetto originale di altri autori (Aggeo Savioli ed Ennio De Concini).
Quali sono le direttrici estetiche principali del “cinema moraviano”? Innanzitutto una raffinatezza visiva non comune, garantita da preziosismi fotografici in bianco e nero e narrazione visiva distesa e meditativa (Maselli, ad esempio, ne I delfini farà grande ricorso ai piani-sequenza mirabilmente orchestrati tra il pullulare di personaggi). Poi, la centralità della borghesia e, spesso, un personaggio, non narrativamente ma significativamente centrale, dotato di una maggiore autocoscienza, dibattuto in una profonda sofferenza esistenziale perché incapace sia di adeguarsi a una società mortificante, sia di fuggirne. Se Fellini, ne I vitelloni, dà per possibile la fuga, ma pregna di nostalgia per ciò che si abbandona, Maselli e Moravia riconducono invece tutto a meccanismo sociologico. L’individuo è troppo più debole della società borghese, del tutto capace di reinglobare e omologare qualsiasi forma di devianza dalla norma. Di suo, Maselli aggiunge all’impalcatura moraviana due forti elementi personali: la coralità dell’impianto, ben imbastita su uno spontaneo intreccio di vite tra una decina di personaggi, e una palese impostazione di programmatico atto d’accusa sociale. Incontro fatale, quello tra Maselli e Moravia, che mette in singolare evidenza tutti i pregi e i limiti di entrambi. Da un lato un autore letterario capace di grandi affreschi psico-sociali, ma sempre molto consapevole di ciò che vuol narrare tanto da dar vita a personaggi verbosi e fin troppo coscienti di sé. Dall’altro, un autore cinematografico che procede secondo le stesse coordinate, ma sul versante del didascalismo. Tutti gli elementi narrativi, in un modo o nell’altro, seguono il progetto a monte del film, col risultato che anche qui i personaggi sono fin troppo esemplari.
E’ anche vero, però, che proprio in virtù di queste sue caratteristiche I delfini continua a essere interessante. Seguendo schemi e convenzioni produttive collaudate (i bei tempi delle coproduzioni Italia-Francia…), Maselli in realtà dà vita a un’opera piuttosto unica nel panorama italiano di quegli anni. Ci ritroviamo tutti i canoni del dramma sociale italiano dell’epoca. Il bianco-e-nero che accarezza i corpi degli attori, l’amarezza e la spietatezza antropologica che solo i nostri autori di quegli anni erano in grado di sostenere, Claudia Cardinale e la sua estenuata bellezza da romanzo decadente, il giovane Tomas Milian cinico e nevrotico che tanto peso ha avuto nel nostro cinema a cavallo tra ’50 e ’60. Ma il tutto è sostenuto da uno sguardo diverso, che non si limita alla “bella illustrazione” fine a se stessa. Uno sguardo “moderno” rispetto ai suoi tempi, già proiettato, in nuce ovviamente, a quel cinema programmaticamente militante, fatto da idee ben chiare e nette a monte del progetto filmico, che troverà piena espressione alla fine dei ’60 in Elio Petri e, sia pure in chiavi espressive ben diverse e con la sua tipica discontinuità, in Francesco Maselli. Che spesso tra un film e l’altro farà passare anni e anni, che vivrà stagioni creative molto diverse e che si presenta come l’autore più frammentario della sua generazione. Ma che ha sempre presupposto alle proprie narrazioni una precisa connotazione di senso.