Italian Graffiti
Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Segreti segreti” (1984) di Giuseppe Bertolucci: il cinema d’autore anni Ottanta, come resistenza umana e creativa al vuoto di un decennio
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
16/03/10 – Sono pochissimi, nella landa sperduta che sono gli anni Ottanta del cinema italiano, gli autori cresciuti e formati in quel brutto contesto storico-culturale. Ne vengono in mente solo tre in particolare: Giuseppe Bertolucci, Gianni Amelio e Silvio Soldini. Poi, verso la fine del decennio, emergeranno Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Giuseppe Piccioni, Francesca Archibugi e Daniele Luchetti, ma in un contesto già anni 90, già proiettato in un’ottica di cinema italiano in via di rinascita creativa, e soprattutto in un’ottica di realtà produttive “illuminate” in resurrezione. Nel decennio, invece, che si apre sull’eredità dei tragici anni tra il ’77 e l’80, e che si chiude con il trionfo della tv commerciale, il cinema italiano scompare, o sopravvive a se stesso, in mezzo a decine e decine di brutte commedie – scritte e girate per i comici – di bassissime ambizioni e d’inesistente presa sul reale. In primo luogo, infatti, sparisce la realtà, sia nel cinema sia, addirittura, su un piano ontologico. Se il cinema fascista dei “telefoni bianchi” evitava accuratamente di parlare della realtà secondo un preciso diktat di regime, a distanza di ottant’anni ci parla ancora di una società che non vuol guardarsi, ed è già testimonianza culturale. Negli anni ’80, invece, in un contesto di quasi totale libertà creativa, pare impossibile raccontare, e per riflesso pare impossibile vivere. Non si vive nulla di rilevante, perciò non c’è nulla che valga la pena raccontare. In realtà, vi sono anche molti elementi contingenti che convergono verso tale deserto. Spariscono i grandi produttori, la nascente tv commerciale incentiva la produzione di film comici in serie, e si chiude una generazione di grandi autori (e piuttosto male: i film anni ’80 dei grandi maestri, con l’eccezione delle opere di Ettore Scola, “Speriamo che sia femmina” di Mario Monicelli e poco altro, sono spesso deludenti e privi di vera ispirazione). Tuttavia, il problema resta a monte. Anche in un contesto di povertà produttiva, se le idee sono buone si può comunque fare buon cinema. In quegli anni, in Italia, no. Il paese non esiste, il cinema non esiste.
Cosa guarderanno, dunque, tra cent’anni, le nuove generazioni che vogliono farsi un’idea sensata sul cinema italiano anni ’80? Probabilmente “Segreti segreti” di Giuseppe Bertolucci, bellissimo film, pochissimo ricordato, rappresentazione perfetta del vuoto umano, sociale, antropologico, scaturito dalla convivenza tra generazioni divise da una distanza incolmabile e nemmeno percepita. Bertolucci è un grande “autore di donne”, e anche “Segreti segreti” si regge su una struttura totalmente femminile. Ciononostante le sette donne narrate non parlano di sé e per sé, bensì sono portatrici di un loro sguardo sul reale, fuori da forti connotazioni di identità sessuale. Una forte matrice femminile è data dalla preponderante narrazione del rapporto madre-figlia, ma non c’è da aspettarsi nessuna convenzionalità su donna, ruolo sociale, annessi e connessi. “Segreti segreti”, innanzitutto, mostra una grandissima padronanza del mezzo-cinema, un’economia creativa stringente ed efficace che utilizza in senso espressivo per lo più elementi tecnici come il montaggio, la pregnanza dei tagli delle inquadrature, l’utilizzo significativo dello spazio filmico, un altissimo uso espressivo del dialogo, con l’alternanza tra scene fortemente parlate e altre in cui un disimpegnato colloquiato è comunque portatore di senso e di definizione dei personaggi. Parlare di scarpe tra donne dev’essere cosa usuale, tuttavia Rosa è entusiasta del suo acquisto, e Laura sorride, nostalgica, forse, verso un tipo di vita che ha sempre rifiutato. Tramite quel brevissimo dialogo informale, si definiscono due mondi, le due metà di una delle tante lacerazioni nazionali in atto in quegli anni: l’entusiasmo “consumistico” ma genuino di una ragazza che ha un approccio spontaneo alla vita (Rosa) vs. il disagio verso tale banalità di una terrorista che, pure, è stata bambina, e forse ravvede in Rosa qualcosa di familiare (Laura).
L’intenzione dell’autore, più che dichiarata, è la costruzione di una tragedia femminile sul terrorismo. Doppia notevole sfida, sia perché del terrorismo al cinema nessuno pareva voler parlare seriamente, sia perché il film “all women” sembrava rifiutare un tema simile. Bertolucci, invece, nei 90 minuti scarsi della sua opera, riesce a evocare memorabili personaggi femminili, radicati fortemente nella loro realtà sociale, e a muoverli su una scacchiera che presuppone la violenza del terrorismo. Di più, Bertolucci suggerisce, sempre in una chiave lirica e quasi mai didascalica, legami e dissonanze tra responsabilità individuali e formazione culturale, come base della nascita dell’insoddisfazione per lo più borghese che ha dato vita al fenomeno del terrorismo. Laura è un’alto-borghese, e nell’incontro con la tata Gina, tramite sguardi e sottintesi, emerge un rapporto di attrazione-repulsione: perché raccontare a una bambina fiabe così tetre? Lo scopo pedagogico della fiaba, usata spesso a scopo più repressivo che educativo, giustifica lo spavento consapevole di una bambina? Laura avrà sofferto, nella sua infanzia, di un contesto così repressivo? E, d’altro canto, come si può condannare Gina, che ha vissuto la guerra e si sorprende che negli anni 80 si possa ancora ammazzare la gente per strada “come in tempo di guerra”, per l’appunto? Stessa cosa per il rapporto tra Laura e sua madre Marta: la signora che sa godersi la vita parla della sua ultima conquista alla figlia, che pochi giorni prima è stata protagonista di un’azione terroristica. Trovata la polizia in casa, Marta si mette in ansia per il disordine, e “già una volta le era successo”, ma con i ladri. Si può condannare tale frivolezza e superficialità del vivere, se ciò permette a Marta di essere l’unico personaggio del film che sa viversi la vita, l’unica a esprimere un vero entusiasmo per le cose? Nello stridere tra i piani diversi in cui si collocano i personaggi, nel loro parlare di banalità mentre l’interlocutore guarda e nasconde violenza e dolore, risiede l’immensa sapienza drammaturgica del film. E nell’inconciliabilità di posizioni e identità diverse, che tuttavia sono tutte in buonafede e non consentono di assolvere e condannare nessuno, risiede la grandezza tragica di “Segreti segreti”. Bertolucci riesce a essere seccamente tragico anche in brevi sequenze, studiate e meditate, di pura azione o immagine. Laura che mischia in un sacco le pistole con i giocattoli dell’infanzia, Laura che svuota un covo terroristico e si sofferma, un po’ affascinata dalla vacua mondanità, a sfogliare una rivista di gossip che parla del matrimonio del principe Carlo e Lady Diana, il sapiente montaggio visivo e sonoro sulle canzoncine stupide che passano in tv a controcanto di una realtà sociale tragica e degradata (i container in Irpinia dopo il terremoto)…
“Segreti segreti”, in ultima analisi, è forse la migliore rappresentazione di un’epoca storico-culturale di grandissimo disorientamento, in cui le coordinate etiche e sociali risultano confuse e sfrangiate. In cerca di un’immagine cinematografica significativa sugli anni ’80 italiani, probabilmente pescheremmo ad ampie mani nel suo tessuto visivo, e avremmo l’imbarazzo della scelta: la tv stupida che intrattiene i baraccati in Irpinia, Rosa che va a far visita alle macerie della sua vecchia casa, l’incapacità di raccontarsi tra due Italie così diverse e lontane, seppur vicinissime, come fanno Rosa e Laura in treno, lo stupore di Marta davanti allo specchio, costretta ad abbandonare la sua brillante gioia di vivere. Ma soprattutto, lo sguardo terrificante di Gina a Laura, dove due generazioni e due storie si scontrano producendo significato, senza parole. Nessuno ha qualcosa da insegnare, nessuno ha qualcosa da imparare, e non c’è alcuna certezza a cui ancorarsi per dare un senso alla propria vita. Pochi anni prima “Colpire al cuore” di Gianni Amelio aveva indagato a sua volta il terrorismo in relazione alla famiglia, ma in una chiave più scopertamente psicanalitica. Bertolucci, invece, si affida alla tragedia e al melodramma, e trae il meglio dalle sue sette meravigliose attrici. Onore al merito di tutte loro, collocate al crocevia di tutte le generazioni del nostro cinema, così diverse e così affiatate. Lina Sastri, Giulia Boschi, Lea Massari, Alida Valli, Rossana Podestà, Stefania Sandrelli, Mariangela Melato. A cui se ne aggiunge un’ottava, una Sandra Ceccarelli ragazzina, capello sparato punkettaro, sguardo di una generazione successiva, che osserva e non capisce, o forse sì.