Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane
I Golden Globe seriali
(Rubrica a cura di Erminio Fischetti)
21/01/10 – Ogni anno i Golden Globes ci riservano sorprese e irritazioni. Sorprese positive o negative a seconda del nostro gradimento ai premi assegnati. Ma se nel ramo cinematografico, i premi lasciano sempre più a desiderare, in quello televisivo, a cui negli ultimi anni viene data sempre maggiore importanza, non si può certo dire che a salire sul podio siano prodotti di discutibile qualità. A cominciare dalla migliore serie drammatica, la straordinaria “Mad Men”, che qualche lettore attento avrà notato essere lo spunto del logo di questa rubrica e che ha impalmato il terzo Golden Globe consecutivo nella medesima categoria, o dal miglior attore drammatico e migliore attore non protagonista, che quest’anno hanno celebrato la bravura e il talento di due attori come Michael C. Hall e il redivivo John Lithgow (chi è nato negli anni Ottanta non potrà mai dimenticarlo in “Bigfoot e i suoi amici”) per due ruoli non proprio da American Dream in “Dexter”, ormai sopraggiunto alla quarta stagione, o persino dalla moglie mormone dell’harem di Bill Pullman, Chloë Sevigny, migliore attrice non protagonista per l’apprezzato “Big Love” di targa HBO, senza dimenticare l’ormai certezza di Alec Baldwin, capo maschilista e sopra le righe della disperata “zitella” Tina Fey in “30 Rock”.
In questa sede, però, l’attenzione vogliamo porla maggiormente alle novità che il 2009 ha portato con sé. A cominciare da “Glee”, osannata come miglior serie tv comico/musicale che in patria è già diventata un cult (e i suoi fan si sono già autodefiniti “gleeks”), ha scatenato una vera gara tra i musicisti americani nell’offrire gratuitamente le proprie canzoni più popolari e ha riportato in voga i testi cantati da Billy Joel, i Queen e le Supremes. Partorito dalla mente “luciferina” di Ryan Murphy, il prodotto vede ribaltare e rielaborare il concetto della comicità e della musicalità all’interno del mezzo televisivo di cui si serve, sviluppando la vicenda narrativa all’interno della William Mckinley High School, una scuola fittizia in una cittadina dell’Ohio. “The Good Wife”, che ha guadagnato il globo per la miglior attrice in una serie drammatica, è un’altra novità. La vincitrice Julianna Margulies, però, non è certo estranea al premio se si considera che era alla settima nomination. E come potrebbe esserlo, dopo aver vestito per anni i panni dell’infermiera Carol Hathaway di “ER”? Ve la ricordate? Quella che nell’episodio pilota tenta di suicidarsi perché il dr. Ross, alias George Clooney, l’ha mollata per l’ennesima volta, anche se poi lui si farà perdonare e vivranno per sempre felici e contenti. Ma torniamo a noi, “The Good Wife” fa parte di quel genere che negli anni ha riempito le file del legal drama al femminile e il titolo fa riferimento alla nostra protagonista alto borghese, che, in seguito ad uno scandalo sessuale nel quale è coinvolto il marito, anche incarcerato per corruzione, è costretta a tornare a lavorare nelle aule di giustizia dopo ben tredici anni di assenza. Insomma una Ally McBeal con problemi veri. Toni Collette è invece miglior attrice comica per la prima stagione di “United Staes of Tara”, serie targata Showtime, che vede figurare Steven Spielberg tra i produttori e Diablo Cody, vincitrice dell’Oscar per “Juno”, fra gli sceneggiatori, nella quale la camaleontica interprete australiana è una casalinga che soffre di personalità multipla. Fra le retrovie dei “nuovi” candidati dimenticati la sera del 17 gennaio figurano molti altri nomi però. “Modern Family” (nomination “Miglior serie comica”), una vera chicca trasmessa in USA da ABC, che racconta con lo stile del mockumentary, ovvero del falso documentario, le traversie di una famiglia allargata. “Cougar Town”, nuova fatica del creatore di “Scrubs”, Bill Lawrence, incentrata su una donna appena divorziata con figlio adolescente a carico che si rimette in gioco. A vestire i panni della protagonista, Jules Cobb, c’è la Monica di “Friends”, Courtney Cox, candidata come in questo caso “miglior attrice di una serie comica” là dove il ruolo che la rese popolare fallì. “Hung” (nominatio per “Miglior attore di una serie comica” e “Miglior attrice non protagonista”), che per chi conosce un po’ di inglese già dal titolo ha capito di cosa stiamo parlando; racconta di una ex-stella del basket che per tirare avanti dai dissesti finanziari, con l’aiuto di un’amica, si improvvisa escort sfruttando il dono fornitogli da madre natura (l’episodio pilota è diretto da Alexander Payne). “Nurse Jackie” (nomination per “Miglior attrice di una serie comica”), vede tornare al lavoro la Edie Falco de “I Soprano” nei panni di un’infermiera davvero molto molto “speciale”.
Abbiamo dimenticato qualcuno? Non credo. Altri candidati sono stati attori e serie di cui conosciamo molto bene le storie e i ruoli: “The Mentalist”, “Californication”, “E alla fine arriva mamma!”, “House”, “The Office”, “Damages”, “The Closer”, “True Blood”, “Entourage”, “Lost”. E già dai premi che vengono assegnati alle serie tv capiamo quanto i “flussi seriali”, cosiddetti di moda o no, stiano modificando nel tempo i nostri gusti, sempre più complessi e articolati, di spettatori. Non è un caso se la ricerca di nuove storie, vicende composte da sceneggiature sempre sofisticate, la partecipazione di attori sempre più importanti, stia prendendo piede anche al di là della barricata, ovvero quella del piccolo schermo. Se un premio non così “vispo” e “progressista” come il Golden Globe è testimone ed esempio di tutto questo attraverso le proprie visuali sempre più scialbe da un lato (dal punto di vista filmico è stata una delle edizioni più desolanti della storia del premio) e sempre più accurate dall’altro (anche se fino ad un certo punto, perché anche al di là della barriera gravi mancanze ci sono state, “Breaking Bad” tanto per dirne una) vuol dire che qualcosa sul modo di concepire l’entertainment di pregio sta davvero cambiando.