Pesaro: la sperimentazione di Julie Talen

La regista americana, sceneggiatrice anche per Altman, porta alla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro il suo lungometraggio Pretend, basato su un'ottima storia di famiglia tra split screen e sperimentazioni cromatiche e sonore.
Intervista a Julie Talen a cura di Giovanna Barreca

Lavorare nella Hollywood delle grandi major e scrivere per Robert Altman e Paul Verhoeven ha permesso a Julie Talen di avere un capitale da investire per la produzione, insieme a Ajae Clearway e Craig Robillard di Pretend, presentato all’interno della retrospettiva Usa alla Mostra del nuovo cinema di Pesaro. Si tratta di un mediometraggio dai risvolti visivi e sonori sorprendenti dove il senso è dato non solo dalla forma ma anche da un intenso contenuto emotivo. Lo split screen ci porta, attraverso tre schermi che spesso diventano otto, cinque, due all’interno di una famiglia che vive in una casa in campagna nello stato di New York. Il padre è uno scrittore che ha perso la sua vena creativa e la mamma è una donna ormai stanca e sfrustrata perchè deve reggere la situazione e il peso economico della famiglia. Le due figliole, immerse spesso nella bellezza del bosco che circonda la casa, dopo l’ennesima lite, mettono in atto un piano: la più piccola farà finta di venire rapita così i genitori, preoccupati, torneranno ad abbracciarsi, simbolo per le bimbe di ritrovata unione. Durante la prima fase dello scontro verbale tra i due adulti, della scoperta del bosco come luogo incantato per le piccole, si possono vivere i diversi stati d’animo dei protagonisti e il suono che accompagna le immagini (spesso piccole distorsioni, altre una musica) aiuta lo spettatore a orientarsi e a capire su quale percorso la regista vuole porre maggiore attenzione. Una libertà narrativa aiuta a vivere e sentire la complessità psicologica di tutti e quattro i personaggi fino al sogno/incubo della bimba nel bosco: una prigione di dolore e di paura nella quale finiscono poi tutti e quattro i personaggi e i colori usati per tale scena – che in una certa maniera uniscono e fondono quelli che per tutta la narrazione vengono assegnati ai quattro personaggi – ne è la rappresentazione più emotivamente coinvolgente. Ottimo anche il crescendo di tensione che accompagna tutto ciò che accade dopo la scomparsa della piccola in un film che chiede allo spettatore una partecipazione e un’attenzione costante, quasi un viaggio di conoscenza in ciò che non viene mostrato ma solo percepito.
L’opera ha una freschezza che sorprende se si tiene conto che è stato girato in 14 giorni nel lontano 2003.

GIOVANNA BARRECA