L’elaborazione del lutto relativo alla disfatta nella Seconda Guerra Mondiale è per il Giappone un nodo ancora da risolvere completamente. Sono ricorrenti ad esempio le polemiche relative a quei militari nipponici che in patria vengono ancora oggi considerati degli eroi, mentre dalla comunità internazionale – e in primo luogo dalle vittime maggiori dell’Impero giapponese, vale a dire la Corea e la Cina – sono visti come dei criminali di guerra. In tal senso, nell’ampia filmografia dedicata al tema, un titolo quale The Eternal Zero appare come il più malleabile ideologicamente e dunque adatto anche per spettatori occidentali. Va forse compreso in questi termini il premio del pubblico, denominato Gelso d’Oro, che il film diretto da Takashi Yamazaki ha ottenuto alla sedicesima edizione del Far East Film Festival. L’argomento del film poi va a toccare delle corde che possono facilmente irretire lo spettatore: si parla infatti dei piloti kamikaze che, della guerra condotta dai giapponesi settant’anni fa, rappresentarono senz’altro l’aspetto più crudele ma anche quello più affascinante secondo l’idea che si dovesse morire volontariamente per la patria. The Eternal Zero si inserisce in questa tradizione provando a elargire qualche dubbio: il personaggio centrale del film, Miyabe, è infatti un pilota che si professa contrario alla presunta etica del kamikaze e che per questo viene visto dai suoi commilitoni come un codardo.
La cornice e i flashback
The Eternal Zero prende il via nel 2004 con la morte della nonna di Kentaro, il giovane protagonista che solo in quel momento scopre l’identità del suo vero nonno, Miyabe per l’appunto, scomparso verso la fine della Seconda Guerra Mondiale perché sacrificatosi come kamikaze. Con ambizioni da scrittore, il ragazzo decide di voler provare a raccontare la storia di quest’uomo e prova perciò a rintracciarne i vari compagni di sventura, ex piloti che hanno conosciuto Miyabe e hanno combattuto con lui. Da qui si propagano una serie di flashback estremamente telefonati (il primo prende il via mostrando un aeroplanino giocattolo che diventa reale e fluttua tra i cieli), utili a spiegare chi fosse quest’uomo: considerato un codardo perché teneva a salvarsi la pelle e non ne faceva mistero con nessuno, Miyabe alla fine decise comunque di sacrificarsi per il bene del Giappone. Una tale costruzione narrativa, solo apparentemente frammentata tra i diversi piani temporali ma in realtà tesa a unire le tessere del puzzle evitando ogni possibile scarto logico, vuole essere al servizio del ritratto di un’epopea storica vista con il senno di poi, in cui per l’appunto Miyabe – sorta di novella Cassandra – era l’unico che sapesse guardare ai posteri pensando al futuro della sua patria. The Eternal Zero risulta così un’operazione estremamente calcolata, quasi un film a tesi, costruito apposta per strappare delle lacrime al suo pubblico e per aiutarlo a rileggere in modo edulcorato una pagina buia della storia del Giappone.
L’affondo retorico
Ma quel che funziona ancor meno in The Eternal Zero è la sua esagerata propensione alla retorica che nasce non da un gioco di mezzi toni quanto – secondo una invecchiata tradizione cinematografica di matrice hollywoodiana – dal grossolano accumularsi di costrutti spettacolari e discorsivi: musica tronfia, monologhi improntati all’esaltazione dell’eroe, personaggi che urlano il loro dolore, appelli ai morti accompagnati da dolly a salire, ecc. Al di là dell’effettivo ribaltamento di prospettiva – la condanna della pratica dei kamikaze – The Eternal Zero fallisce il suo obiettivo a causa di un eccesso elefantiaco della scrittura (anche la durata – 144 minuti – in tal senso non aiuta) e di una approssimativa progressione degli eventi: basti pensare che per almeno metà film ciò che interessa al regista è far ripetere ossessivamente ai suoi personaggi che Miyabe non era un codardo.
Lo spettacolo della guerra
L’auto-reclusione nel campo del film a tesi limita così tanto The Eternal Zero che persino le sequenze aeree non riescono a restituire il giusto appeal visivo. In ossequio alla coerenza – che diventa però quasi un’ossessione – queste scene sono infatti tese più a dimostrare l’eroismo e l’altruismo di Miyabe che ad avvolgere lo spettatore nella spettacolarità delle situazioni e della ricostruzione storica. Se allora si deve parlare di film reazionario, non è tanto per la tesi che supporta, del tutto condivisibile (il sacrificio andava fatto non per la guerra, ormai persa, ma per la ricostruzione del Giappone), quanto per la messa in scena adottata, in ossequio a una spettacolarità monocorde e a una scrittura monolitica priva di qualsiasi mezzo tono.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi