Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“Bastardi senza gloria”: Tarantino e la sceneggiatura totale
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
09/10/09 – Scrivere di sceneggiatura riguardo all`opera di Quentin Tarantino è come andare a nozze. Da sempre i suoi film si mostrano innanzitutto come narrazioni a orologeria, anzi come pura narrazione, in cui l`interesse centrale dell`autore è raccontare, l`azione stessa del raccontare in sè, senza alcuna preoccupazione dei significati (e con questo liquidiamo tutte le assurde polemiche su nazismo e Shoah che hanno accompagnato il film, per non parlare di chi si è lamentato della non-attendibilità storica della morte di Hitler…). Cinema di puro significante e di alto manierismo, che col passar degli anni accentua sempre più la sua totale concentrazione sull`elemento diegetico. Se infatti finora si notava una costante alternanza tra violenza goliardica e narrazione, con “Bastardi senza gloria” Tarantino fa un ulteriore salto verso il puro racconto. “Jackie Brown” era già stato un notevole tentativo in questa direzione. Il nuovo film si struttura più o meno sulle stesse linee principali: molteplici nuclei narrativi paralleli, quasi privi di azione in senso stretto e del tutto affidati al dialogo, in funzione di un capitolo conclusivo in cui tutte le storie si ritrovano e si sublimano in un gran finale. In “Bastardi senza gloria” tutto ciò è amplificato all`ennesima potenza. Di fatto si tratta di un noir, una sorta di gangster-film in cui le bande rivali sono i nazisti e le forze alleate, sostenute anche da un viscerale sentimento di vendetta da parte ebraica. Noir, quindi, contaminato con il western, con citazioni a piene mani da Sergio Leone. Citazioni, si badi bene, non a livello di una banale riproposizione in forma di omaggio. Tarantino adotta radicalmente l`intrinseca struttura narrativa leoniana. Tutti i grandi western di Leone mostrano infatti una costruzione narrativa barocca, articolatissima, con storie parallele e intersecate, spesso ai limiti della gratuita involuzione (ne fu un massimo esempio “C`era una volta il West”, in cui è facile perdersi nella miriade di raggiri, doppigiochi e rapporti mutevoli e conflittuali tra i personaggi), con annesso lungo e meditato prologo (qui, il dialogo di Landa con il francese che nasconde gli ebrei).
Lo specifico dialogo teatrale è definito performativo, ossia sostitutivo della narrazione. A teatro il dialogo deve contenere tutte le informazioni necessarie alla comprensione della storia. Tarantino parte dallo stesso principio, e demanda al dialogo il compito di coprire tutte le necessità narrative. Rispetto ai suoi film precedenti, però, stavolta al dialogo è affidata anche tutta la tensione emotiva. Meraviglioso, in questo senso, è l`eloquio di Landa, sottile, insinuante, persuasivo e minaccioso, pronto a sfruttare ogni minima sfumatura del linguaggio per raggiungere il proprio scopo. Capita, in vari momenti, di avvertire una tale tensione latente nelle parole dei personaggi che spesso ci si attende un improvviso scoppio di violenza, e stavolta, però, non arriva mai, o se arriva, arriva tardissimo. Basti ricordare la lunghissima, quasi estenuante sequenza dell`incontro di Frau von Hammarsmark con gli inglesi nella taverna, in cui l`attesa della risoluzione è così ritardata da rendere intollerabili delle semplici chiacchiere intorno a un tavolo tra una birra e un gioco di società . Tarantino gioca col dialogo con una tale consapevolezza critica che può permettersi di dilungarsi, divagare, rasentare la commedia, ritornare nel noir, senza che venga mai meno la tensione alla base dei rapporti di forza tra i personaggi. Molto affascinante, ma tutto sommato meno convincente perchè un po` più scontato, appare il gioco scopertamente autoreferenziale sulla sala cinematografica trasformata in luogo di morte, catartico e risolutivo sul gran finale. Ma, di nuovo, è ammirevole la sapienza narrativa con cui Tarantino riesce a orchestrare per più di mezz`ora un lunghissimo finale, senza mai apparire insistito nè gratuito. Le storie parallele stavolta non s`incrociano tutte; una resta fuori, appena sfiorata dal resto, ed è la vendetta di Shosanna, a cui però è riservato il trionfo conclusivo.
Per una narrazione così chiusa in sè, il rischio più alto è la freddezza, la gratuità cerebrale da èlite cinefila. Ma Tarantino, si sa, è anche un gran burlone, e alla fine la salvezza del suo cinema sta proprio nella comicità , che ammorbidisce la profonda ricerca strutturale dei suoi film e, pur nella sua cinica goliardia sanguinolenta, conferisce umanità e, a suo modo, verità alle sue storie. A ben vedere, è un elemento ricorrente in tutte le sue opere maggiori; in ogni suo film in cui si rasenta l`oltranzismo narrativo, interviene sempre un sentimento dominante a rendere tutto più credibile (in termini relativi, ovviamente, alla fine tutti i film di Tarantino sono espliciti fumettoni). In “Jackie Brown” fu la malinconia dei due protagonisti; in tutti gli altri casi una comicità dissacrante e molto di testa, qua e là poco accessibile e pure stucchevole (chi potrà mai ridere dei riferimenti al cinema anni 20-30 francese e tedesco?), ma più spesso esilarante. In “Bastardi senza gloria” si ride più raramente, ma dove si ride, si ride moltissimo. Penso alla spia inglese esperta di semiotica del cinema, alla scarsa tolleranza di Hugo Stiglitz, ai camuffamenti siciliani, al cinismo di Aldo Raine, che non guarda in faccia nemmeno alle donne e per estorcere un`informazione a una diva del cinema le infila un dito in una ferita da fuoco. Su quella scena la platea si è divisa. Chi si schifava, chi rideva. Io ridevo. Grande cinema, profondamente generoso, e sceneggiatura meravigliosamente manieristica. Non so se “Bastardi senza gloria” sia il capolavoro di Tarantino (v. battuta finale del film), ma al momento è di sicuro il suo film artisticamente più maturo e compiuto.