È senz’altro difficile nel cinema globalizzato contemporaneo riuscire a raccontare delle storie provenienti da paesi “esotici” senza scadere in paternalismi e strizzatine d’occhio al pubblico occidentale, specialmente se festivaliero. Riesce a evitare di cadere nei cliché il regista spagnolo Antonio Méndez Esparza che con il suo esordio al lungometraggio, Qui e là, ha vinto nel 2012 il Gran Prix al Festival di Cannes nella sezione della Semaine de la Critique.
Eppure, proprio perché l’occhio del narratore è quello di uno spagnolo che guarda all’ex colonia messicana e in particolare a una delle zone più povere e popolari del paese, un paesino di montagna nello Stato di Guerrero, il rischio in potenza di una storia poco sincera o di un atteggiamento superficiale ed estetizzante era ancora più alto. Esparza è riuscito nell’impresa di nascondere la sua autorialità e le sue origini affidandosi completamente al suo protagonista, Pedro, un messicano che conosce da anni e che, dopo aver lavorato come commesso in un supermercato di New York, ha deciso di tornare in patria per seguire il sogno di formare un complesso musicale.
Già protagonista di un precedente cortometraggio di Esparza, Una y otre vez, Pedro interpreta sostanzialmente se stesso al fianco della sua vera moglie (mentre la scelta delle figlie è arrivata dopo un lungo casting) e si trova a dover affrontare le difficoltà quotidiane nel suo paese, povero e isolato dal resto del mondo. Difficoltà accentuate proprio dal fatto di essere stato assente per anni dal Messico, scontando dunque anche l’iniziale diffidenza delle figlie che faticano a capire i motivi per cui il padre abbia vissuto così tanto tempo lontano da loro.
Costruito secondo dei ritmi dimessi, con una narrazione lasca e una modalità di ripresa che preferisce i long take alle inquadrature brevi, Qui e là non manca però di drammaticità, sviluppando una articolata ri-presa di consapevolezza sull’impossibilità di vivere nella propria patria dove anche la semplice sussistenza è una conquista faticosissima (tutta la sequenza dell’ospedale in cui viene ricoverata la moglie che ha avuto la terza bambina è in tal senso rivelatrice della crudeltà della situazione, in cui per potersi assicurare le cure bisogna letteralmente donare del sangue).
Questa prospettiva però non fa sì che si cada in facili dualismi secondo cui, ad esempio, se il Messico è così povero, allora necessariamente gli Stati Uniti devono essere la terra promessa. Anzi, al contrario, gli Stati Uniti – il “là” del titolo – sono uno scomodo e urticante fuori campo, un non-luogo cui i personaggi si rassegnano ad andare e la cui presenza mercantile e imperialistica è segnalata con ricorrenza da sedie, insegne e bottigliette con il marchio della Coca Cola. Il “qui”, invece, è ovviamente il Messico, cui non si vorrebbe rinunciare per il semplice fatto che è la terra del protagonista, il luogo in cui vive la sua famiglia, la terra dell’accoglienza, per così dire.
Sarebbe riduttivo e semplicistico parlare di Qui e là come di un intrecciarsi tra fiction e documentario, laddove invece sembra più esatto parlare di una narrazione che si instilla e trae nutrimento dal reale, se ne lascia guidare e non si nega momenti prettamente simbolici – pur anch’essi presi dalla realtà – e che acquistano senso proprio per la collocazione che hanno all’interno del racconto (valga per tutti la sequenza del giuramento alla bandiera fatto dagli studenti, un rito che si ripete regolarmente nelle scuole messicane ma che, inserito nel momento della sconfitta del protagonista, assume un senso ulteriore, di doloroso paradosso).
È senz’altro piacevole e gratificante vedere che esistono ancora film come Qui e là, un lavoro prettamente politico, ma in cui l’assunto non è gridato quanto piuttosto incarnato nei volti e nelle rughe dei personaggi, nella loro delusione, nella loro amarezza e nell’amore per una terra che non li vuole e non li può accogliere.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi