Michael Moore infiamma Venezia con un nuovo tassello al suo mosaico della decadenza Usa. Accoglienza rispettosa anche per Claire Denis, in concorso con White Material
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
07/09/09 – Capitalism: A Love Story. La storia d`amore di un paese e di tutto il mondo occidentale, tra il suo popolo e un`ideale di vita che teoricamente dà a tutti pari opportunità di felicità e realizzazione. Una storia d`amore che, dopo altre peripezie, negli ultimi anni è entrata nella sua fase più controversa con l`attuale crisi economica globale. Forse qualcuno si sta veramente disamorando, forse s`inizia ad avvertire il bisogno di tornare a valori diversi, a modelli economici che abbiano maggior rispetto, e magari vero amore, per l`essere umano. Diciamolo subito, non è argomento nuovo ma vale la pena ribadirlo: Michael Moore chiede allo spettatore di sottoscrivere diversi patti prima di approcciarsi ai suoi film. Più o meno bisogna pensarla come lui; in lui è presente anche una forte componente persuasiva e affabulatoria, ma i suoi sono film strettamente a tesi. Poi: Michael Moore non è un documentarista, malgrado sia assurto alla notorietà internazionale sotto tale etichetta. Sebbene Capitalism sia forse la sua opera più vicina a un vero documentario, il suo tono rimane sempre molto declamato, con corredo di spirito sarcastico e/o indignato. Il taglio dato alle scelte narrative, agli accostamenti di montaggio tra i materiali di repertorio, è sempre programmatico, da grande accusatore, da pamphlet. Poi: capita quasi sempre di non amare i suoi finali, che, in un modo o nell`altro, si ripiegano ogni volta in un grossolano populismo da slogan (caratteristica confermata anche in Capitalism). Tuttavia, questa sua ultima fatica, passata in concorso a Venezia, mostra un Michael Moore in evoluzione. Se la sua punta massima di populismo e declamazione era stata raggiunta con Fahrenheit 9/11, e in parte era già mitigata in Sicko, in Capitalism si nota una maggiore asciuttezza, un`indignazione sentita ma razionale, una rabbia non isterica ma coltivata e metabolizzata, che si riconverte in un attacco al capitalismo ben argomentato, frutto di un evidente, profondo lavoro di ricerca. Traendo spunto dalla recente crisi economica, Moore risale alle radici del male, conduce un`indagine sui primi passi del capitalismo negli Stati Uniti, si sofferma ad analizzare il ruolo svolto dall`amministrazione Reagan nell`inasprimento del modello economico e di relazione con i sindacati, e inevitabilmente identifica nella gestione del sistema bancario occidentale la causa principale del disastro. Senza tralasciare piccole, grandi nefandezze (quelle iniquità che di rado giungono alla ribalta internazionale), come la lobby delle carceri minorili. Mentre, insomma, Moore sembra guadagnare gradualmente un miglior controllo sulla sua tendenza aggressiva, si perfezionano anche le sue scelte estetiche. Il montaggio dei brani di repertorio assembla stavolta materiali assolutamente eterogenei (soprattutto nella prima parte in funzione ironica), pervenendo a un`estetica da patchwork visivo di grande pregnanza, sia sul piano stilistico che semantico. La proiezione stampa si è chiusa con un applauso scrosciante; che lo si voglia o no, che piaccia o meno, e al di là dei meriti artistici, è davvero difficile restare indifferenti alla trascinante potenza affabulatoria di Michael Moore.
Un`accoglienza rispettosa, ma senza entusiasmi, è stata riservata invece all`ultima opera (anch`essa in concorso) di Claire Denis, White Material. Claire Denis è un`autrice nobile, coraggiosa, legata da sempre a un`idea frontieristica di cinema, orgogliosamente elitaria e intellettuale. La vicenda, sospesa nello spazio e nel tempo, di una donna bianca tenacemente legata alla sua piantagione di caffè in Africa in un contesto da guerra civile e da epurazione dei bianchi, si tramuta in un`opera dalle più svariate letture. Il mondo occidentale che genera mostri (l`ostinazione patologica di Marie, il figlio tarato) contro il mondo dell`istinto più vero e brutale dei bambini-soldato africani, la necessità di produrre per sentirsi vivi; la poetica di Denis si muove sempre per ellissi ed ermetismi. Il suo non è un cinema di logiche, ma di suggestioni. Stavolta si nota persino una maggiore apertura verso il pubblico, che però non sopperisce a una sostanziale freddezza emotiva. Isabelle Huppert è brava come sempre, e fa simpatia rivedere Christopher Lambert cimentarsi col cinema d`autore più estremo dopo anni di filmacci e anonimato.