Bis di Werner Herzog in Concorso: il Film Sorpresa della giornata è il suo “My Son My Son What Have Ye Done”, mentre Tsukamoto si ripete
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
05/09/09 – Stavolta il Film Sorpresa di Venezia 66 ha preso davvero tutti in contropiede. Due film in concorso dello stesso autore: caso rarissimo, forse unico. Appena usciti dal gioco cinefilo di Bad Lieutenant, proiettato per la stampa questa mattina al Lido, ci troviamo di fronte a un`altra opera di Werner Herzog, My Son My Son What Have Ye Done, sempre girata in terra statunitense con un cast di prim`ordine: Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloe Sevigny, Udo Kier, Michael Pena, Brad Dourif (presente anche in Bad Lieutenant) e Grace Zabriskie, per la produzione di David Lynch. Davvero difficile stabilire quale delle due opere sia più riuscita (oltretutto entrambe mostrano più di un difetto); forse è più agevole considerarle come un dittico americano, tramite il quale Herzog si rigetta nella mischia del cinema narrativo, dopo anni di (quasi) esclusiva attività documentaristica. Il dato più saliente, al di là dei valori e disvalori dei due film passati a Venezia, è la conferma dell`inattaccabile spirito d`avventura che ha sempre caratterizzato il regista tedesco. Il suo gusto per la sfida è ammirevole. Invece di abbandonarsi a una quieta maturità creativa, vivendo di rendita sul passato, Herzog ha cercato nuovi orizzonti, nuove possibilità cinematografiche da esplorare, e, di nuovo come sempre, seguendo percorsi totalmente imprevedibili.
Come Bad Lieutenant si rivela un gioco narrativo sui canoni americani di genere, così My Son My Son What Have Ye Done appare un compiuto, partecipato e doloroso dramma, che trae linfa dalla tragedia greca e da una delle sue storie più crudeli, quell`Orestea di Eschilo che narrò con eterna pregnanza psichica la massima violenza del matricidio. Ispirandosi (pare) a una storia vera, Herzog cala tali archetipi ontologici nell`assolata San Diego, in mezzo a personaggi bizzarri (e sottilmente crudeli: v. lo zio ben caratterizzato da Brad Dourif) da tipica provincia americana. Si sente, forse, un po` la mano di David Lynch in sede di produzione, visto che Lynch ha spesso tracciato radiografie allucinate di comunità provinciali. Herzog, comunque, si mantiene meno “lisergico”, e più vicino invece a una sostanziale empatia col protagonista. Nella sua esaltazione a metà tra il folle religioso e lo psicotico dall`inestricabile legame con la madre, il personaggio di Brad ripercorre a suo modo la tradizione herzoghiana di figure umane esorbitanti e solipsistiche fino alla patologia (uno su tutti, il Fitzcarraldo di Klaus Kinski). E` la cifra più personale di tutto il film. Tutto il resto è tragedia classica, appena mitigata da un`aria svagatamente grottesca che caratterizza alcuni personaggi di contorno. Una chiave, il grottesco, che sembra essere l`attuale approdo espressivo di Herzog (vd le demistificazioni di Bad Lieutenant), o che quantomeno appare l`unico mezzo conosciuto dall`autore tedesco per raccontare l`America. Gli Stati Uniti non possono essere presi sul serio, o non più di tanto, parrebbe dire. Merita una particolare menzione il protagonista Michael Shannon, ancora una volta splendido attore. Certo, da Revolutionary Road in poi gli affidano solo ruoli di tormentati psicopatici, ma le sue performance si confermano sempre emozionanti.
E` da consigliare a Shinya Tsukamoto, invece, di mettere una volta per tutte la parola fine alla sua saga di Tetsuo. Il terzo capitolo è passato in concorso nel pomeriggio di oggi, e ha palesato una notevole stanchezza d`ispirazione. Tetsuo nasce nel 1989 come fenomeno underground, girato con due lire, e con molto talento, in uno sgranatissimo bianco e nero, e inaspettatamente fa il giro del mondo diventando oggetto di culto. Adesso la saga di “fanta-biologia”, di vaga ispirazione cronenberghiana per le sue fusioni tra carne e metallo, si è notevolmente arricchita, è a colori e la fotografia è di pregevole eleganza. I dialoghi sono in inglese e, al posto dell`originale spirito sarcastico e iconoclastico, tira un`aria di maggiore serietà , con annesse alcune (infelici) pretese di melodramma. La tecnica di Tsukamoto è di nuovo fuor di discussione, soprattutto nel suo corto circuito tra cultura alta e bassa (forma elegante per materiali narrativi di bassissimo livello). Tuttavia, nel suo montaggio (visivo e sonoro) subliminale e assordante, e nel suo gusto spinto per i barocchismi, il terzo capitolo di Tetsuo finisce per essere sostanzialmente anestetico. Non sorprende più nessuno, non spaventa più nessuno, non diverte più nessuno. Anzi, il suo universo, che nel bianco-e-nero trovava una ragion d`essere, nel colore rivela invece la sua fragilità estetica, e più volte sorge il sospetto di assistere a un lungo videoclip di provocazioni postmoderne, prive ormai di qualsiasi mordente.